La parola pisco può significare cose diverse: una città portuale peruviana, un’anfora in terracotta utilizzata un tempo per la fermentazione o il trasporto del vino, una parola in lingua quechua che significa “uccello” e, infine, il distillato che dà vita a uno dei cocktail classici internazionali: il Pisco Sour. Tuttavia la parola pisco ha ormai un solo significato. Ed è Perù. O, meglio, lo spirito del Perù.
Solo grappoli di peso
Quando Hernando de Montenegro, arrivato sulle orme del conquistador Francisco Pizarro in questo lembo di terra bagnato dall’oceano
Pacifico nel 1532, piantò le prime viti lo scopo era quello di avviare una produzione locale di vino. Il successo fu tale
che i vini peruviani iniziarono presto a essere esportati verso la Spagna mettendo in difficoltà i vignaioli iberici e provocando
di conseguenza un innalzamento delle tasse doganali. Fu la scintilla che diede vita a quello che Livio Pastorino Wagner, presidente
dell’Associazione degli assaggiatori peruviani, ha definito «il più antico distillato del Nuovo Mondo». Il Pisco nasce infatti
in Perù nel XVII secolo. È innanzitutto un distillato di vino, paragonabile per certi versi al cognac francese ma che, a differenza
di questo, non ammette l’invecchiamento in legno e accetta solo determinate uve stabilite dal disciplinare. Le varietà sono
otto e la più diffusa è la Quebranta, la prima autoctona peruviana ottenuta dall’incrocio di uve importate. La Quebranta (il
suo nome deriva dal fatto che i grappoli sono talmente pesanti da spezzare spesso i rami della pianta), è un’uva poco aromatica,
perfetta per il Pisco Sour che, di gran lunga, è il cocktail più celebre legato al Pisco. Tanto che, il primo sabato di febbraio,
in Perù come nei bar del mondo, si festeggia il Pisco Sour Day.
Dal Pisco Puro al Mosto verde
Una volta pressata l’uva e ottenuto il mosto, si fa svolgere completamente la fermentazione. Il vino ricavato è poi distillato
in alambicchi discontinui, filtrato e lasciato riposare per almeno tre mesi. Poi lo si imbottiglia ed è subito pronto all’uso.
Se il distillatore usa una sola varietà d’uva ciò che si otterrà sarà un Pisco Puro, tuttavia se si sceglie di fare un blend
di uve, vini o distillati finali si otterrà quello che viene chiamato Acholado. E, infine, qualora il produttore volesse interrompere
la fermentazione per mantenere un residuo zuccherino più elevato da distillare, quello che si andrà a imbottigliare verrà
chiamato Mosto Verde.
Già così si comprende facilmente come il Pisco in realtà non sia una cosa sola, ma contenga al suo interno sfumature di aromi e di gusto molto diversi. Uve più aromatiche come l’Italia o la Moscatel sono ad esempio più adatte per un altro cocktail rinomato, il Pisco Punch con succo di ananas, mentre il Mosto Verde lo si preferisce bere in purezza o nel Capitan, un drink preparato con vermouth rosso e due gocce di Angostura bitter.
Grandi e piccole distillerie
Vigneti e distillerie si snodano lungo la costa a sud di Lima. Alcune come Tabernero, Cuatro Gallos o La Caravedo, più nota
come Porton, sono strutturate e producono in volumi anche per l’export, incluso il mercato italiano; altre, come Sarcay o
Cholo Matias, mantengono una dimensione artigianale e un mercato locale. In quella di Cholo Matias, tanto per rendere l’idea
dell’artigianalità, gli alambicchi sono ancora scaldati con fuoco a legna alimentato dai dipendenti e la separazione delle
“teste” e delle “code” è misurata da strumenti specifici, anche se poi la decisione finale spetta allo sguardo, all’olfatto
e al gusto del distillatore.
Alla ricerca del vero Pisco Sour
Il fascino del Pisco non è tanto il fatto di essere un unicum nel mondo della distillazione, quanto di disegnare in un sorso
il carattere e la specificità di un popolo e del suo Paese. I peruviani sono orgogliosi del loro Pisco, ma non è sempre stato
così. Carlos Moreno, export manager di Quatro Gallos, ricorda quando in gioventù nei bar di Lima si preferiva bere whisky,
rum e cognac. Oggi il Pisco si trova dovunque: in un locale di tendenza come il Carnaval, portato dal bartender Aaron Diaz
nella classifica dei World’s 50 Best, e nelle osterie popolari sparse tra i quartieri di Barranco e di Miraflores. Qui si
va al Capitán, gestito da Roberto Meléndez, erede di una tradizione di famiglia e vincitore per tre volte di fila del contest
dedicato al miglior Pisco Sour del Perù, e si scopre che il bar ospita solo ed esclusivamente Pisco. Quasi duecento etichette
diverse e solo cocktail rispettosi della tradizione.
Due gocce di Angostura
Il Pisco Sour ovviamente, che si realizza con un Pisco Puro, possibilmente di Quebranta, succo di limone, sciroppo di zucchero,
albume d’uovo e due gocce di Angostura bitter, nato il primo aprile del 1917 per mano di Victor Morris, barman statunitense
che solo un anno prima aveva aperto un suo bar nella capitale peruviana; oppure il Pisco Punch, con succo di ananas, infusione
di scorza di ananas e succo di limone, o il Capitan, un mix alla pari di Pisco e di vermouth rosso.
Ma anche drink nati ancor prima del Pisco Sour come il Bongiorno, fondamentalmente un gintonic che sostituisce il gin con il Pisco, o il Chilcano, che alla dose di Pisco aggiunge abbondante ginger ale. Long drink, più che cocktail, semplicissimi da fare, anche a casa, dissetanti e rilassanti quanto può esserlo un lettino a bordo piscina.
Infiniti modi di cocktail
Non a caso il Pisco sta ottenendo consensi crescenti non solo in patria ma anche all’estero. La sua forza è proprio data dalla
sua versatilità. Nei cocktail bar italiani, se il Pisco Sour resta la bandiera più riconoscibile del distillato peruviano,
c’è chi lo adatta a un Negroni, a un Moscow Mule, a un Manhattan. Perché sul Pisco si può “giocare” e divertirsi in infiniti
modi dettati dalla creatività dei bartender. Solo su una cosa non si può scherzare: il Pisco è nato e resta peruviano. Con
tanto di denominazione di origine riconosciuta e protetta anche dalla Commissione Europea come “indicazione geografica”.
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