Fuori dall’Europa, due sono i mercati più importanti oggi per chi esporta vino. Uno sono gli Stati Uniti, ancora oggi la più grande piazza del mondo, che ogni anno importa 5,2 miliardi di euro di bottiglie. E l’altro è la Cina, che ne importa 2,4 miliardi ma che ha un ritmo di crescita scoppiettante: più 15% di importazioni, negli ultimi cinque anni. In entrambi i mercati, l’Italia del vino gioca la sua partita. Ma rischia di subire l’assalto dei nuovi emergenti della viticoltura, Australia e Cile soprattutto. Che rispetto ai produttori europei, hanno una marcia in più: verso questi due importanti mercati non pagano dazio alla dogana. Con il risultato che le loro bottiglie costano meno sugli scaffali dei supermercati e al ristorante.
I dati arrivano dall’Osservatorio Vinitaly-Nomisma alla vigilia della 53esima edizione del Vinitaly, la grande kermesse del vino che aprirà i battenti il 7 aprile a Verona. Cominciamo dagli Stati Uniti, dove le cantine italiane pagano un dazio compreso fra il 3 e il 7%: per gli australiani invece - che al pari dell’Italia stanno nella top 5 dei principali esportatori di vino negli Usa - il più grande mercato del mondo è a dazio zero.
In Cina la fetta di mercato dell’Italia è di 419 milioni di euro, pari al 6,5% di tutto l’export: molto meno della della quota di mercato dell’Australia, per esempio, che è di un miliardo (16%). Ma l’Australia ha un vantaggio, rispetto a noi: sul mercato cinese paga dazio zero, mentre l’Italia subisce una tariffa tra il 14 e il 20% a seconda del tipo di vino. Anche il Cile in Cina non paga dazi, e la sua quota di mercato è pari al 9% di tutto l’export.
Australia e Cile producono un quarto del vino che fa l’Italia, che resta il primo produttore mondiale con 55 milioni di ettolitri l’anno. Ma nella classifica dei principali Paesi esportatori sono già al quarto e al quinto posto e sono produttori aggressivi, la loro quota di mercato è in crescita. Ecco perché per la Ue firmare nuovi accordi di libero scambio diventa fondamentale: in Canada, dove è stato firmato, il nostro Paese gioca ad armi pari con l’Australia. E in Giappone - dove il libero scambio con la Ue è in vigore dal 1° febbraio - il vino europeo gode di un vantaggio sul Cile, che paga ancora un dazio.
Insomma, la partita del vino sui mercati internazionali si gioca anche sul terreno delle dogane. E chi gode di dazi più bassi è avvantaggiato. Il tema non è banale e in questi giorni, per esempio, agita i sogni dei produttori italiani che esportano nel Regno Unito, che con 3,5 miliardi di euro è il secondo Paese importatore al mondo. Che ne sarà dell’export delle bollicine italiane, se la Gran Bretagna alla fine uscirà dalla Ue senza un accordo? Per il Prosecco italiano, oggi il Regno Unito è addirittura il mercato più importante, pari al 35% di tutto l’export della Doc. Di tutte le bollicine che si vendono in Gran Bretagna, una su due è una bottiglia di Prosecco. Sul tema, il Consorzio del Prosecco Doc ha appena commissionato un sondaggio: «Se il prezzo delle bottiglie dovesse aumentare del 10% per via dei dazi - racconta il presidente del consorzio, Stefano Zanette - solo il 50% dei consumatori intervistati continuerebbe a berlo lo stesso». E gli altri? «Il pericolo più grosso viene dall’Australia, che è un noto produttore di prosecco grazie ai molti italiani immigrati che hanno cominciato a darsi a questo business in passato. Canberra riconosce il prosecco come varietà, per questo l’utilizzo del nome è lecito. Proprio in questi giorni stiamo trattando con l’Australia con l’obiettivo di trovare un accordo».
Oltre a Cina e Stati Uniti, dove il vino made in Italy ancora paga pegno alla frontiera? Se prendiamo i primi dieci Paesi importatori di vino al mondo, l’Italia è esente da dazi in cinque: la Germania, il Regno Unito (almeno per ora)e la Svezia in quanto membri Ue, più il Giappone e il Canada grazie agli accordi di libero scambio. Paga invece in Brasile, tra il 20% e il 27% a seconda del tipo di vino, e paga il 12,5% in Russia. Per esportare in Svizzera (l’ottavo mercato mondiale) paghiamo addirittura fino al 48%: un dazio che ci svantaggia rispetto alla Francia, che subisce al massimo il 18%, ma che ci privilegia rispetto alla Spagna, che arriva a pagare fino al 63%.
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