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Questo articolo è stato pubblicato il 06 maggio 2011 alle ore 14:51.
Com'è percepita all'estero l'Italia che produce macchine? Che cosa chiedono le industrie americane alla tecnologia made in Italy? A queste domande risponde il sondaggio "Awareness Survey Usa" presentato ieri a Milano nell'ambito del Progetto Machines dell'Ice (Istituto commercio estero). E lo fa interrogando manager e dirigenti (Top C-level) di aziende statunitensi per individuare i criteri di valutazione e selezione negli acquisti, la percezione e la conoscenza dei produttori e dei paesi di produzione. Un campione di oltre 330 aziende del settore manifatturiero a stelle e strisce.
«Quello che emerge da questa ricerca annuale – commenta Luigi Serio, docente di economia e gestione delle imprese presso l'Università cattolica di Milano – è che la nostra tecnologia è percepita come affidabile. Siamo competenti nella meccanica di alta precisione, godiamo di una buona reputazione e siamo considerati innovativi nel nostro campo. Tuttavia, lamentano difficoltà quando si entra nel merito del servizio con il cliente». In sostanza, i problemi sono legati ai pezzi di ricambio, alla distanza della casa produttrice dal suolo americano, alla difficoltà di comunicare con l'Italia. «Su questo giudizio pesa un aspetto specifico della cultura imprenditoriale americana – spiega Serio –. Là chi stringe affari vuole guardare in faccia l'azienda da cui acquista tecnologia. Ma in questa richiesta c'è anche il limite del nostro tessuto industriale», quello delle dimensioni d'impresa, un freno alla crescita sia in Italia che all'estero. Poco cross selling: le aziende italiane si presentano all'estero poco unite.
Eppure, se si leggono con attenzione le risposte contenute nel rapporto, chi acquista macchine da noi resta soddisfatto, apprezza più di tutto il rapporto qualità prezzo, la flessibilità di strumenti poco standard ma costruiti per risolvere specifiche esigenze. Insomma, l'artigianalità dei nostri produttori è ancora considerata un pregio. Ma non sembra più sufficiente. «A differenza dei competitor, tedeschi e giapponese – aggiunge il professore di economia – siamo meno bravi a vendere, o meglio a comunicare la nostra ricerca e sviluppo. La percezione della nostra tecnologia ne risente. Anche sul fronte della standardizzazione, il nostro prodotto se è vero che è personalizzabile risente anche di limite nei volumi». In altri termini se vogliamo andare ad aggredire mercati più interessanti e più grandi di quella americano, come ad esempio Cina, Brasile o India occorre produrre a prezzi più bassi. «I mercati su cui hanno sempre insistito e cioè Europa e America stanno rallentando ma i nuovi emergenti hanno logiche e modalità di ingresso che costituiscono barriere all'ingresso più alta. Certamente, la scommessa è quella di guardare altrove. Ma là la sfida è più complicata. Se ci vai, lo devi fare con investimenti diretti altrimenti i rischi in termini di proprietà intellettuale sono altissimi».
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