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Questo articolo è stato pubblicato il 13 giugno 2013 alle ore 18:37.
L'ultima modifica è del 03 luglio 2015 alle ore 10:52.

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L'allarme lanciato dal New York Times sul fatto che centinaia di migliaia di americani rischiano di essere schedati a vita, per via del loro Dna conservato nelle banche dati della polizia, non riguarda al momento l'Italia. Che sì dispone di un Laboratorio nazionale del Dna allestito all'interno del Polo del carcere romano di Rebibbia, ma che non è ancora attivo. A volerla e a chiederci di istituire una banca dati nazionale è stata l'Europa nel lontano 2005, con il trattato di Prum al fine di coordinare la lotta al crimine con lo scambio dei profili genetici dei detenuti.

Il Laboratorio, anche se in ritardo rispetto al Trattato è nato, ed è costato 16 milioni di euro. È dotato di strumenti all'avanguardia ed è già stato collaudato, ma non è ancora attivo. Ma anche se lo fosse, i cittadini italiani non corrono pericoli di essere "classificati, perchè il Dna viene prelevato solo a certi detenuti e solo per scopi forensi. Questo limite è ben specificato nel testo redatto dal Comitato nazionale di Biosicurezza e Biotecnologia, l' organo istituito dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri proprio per valutare il progetto della banca dati genetica e che riguarda solo i detenuti per delitti non colposi, quelli arrestati in flagranza di reato o sottoposti a misure detentive alternative al carcere, sempre in presenza di sentenza definitiva.

Di fatto, però il testo che deve tramutarsi in legge resta, dopo l'avvicendarsi dei ministri in questi ultimi tre anni ancora incagliato in Parlamento.

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