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Questo articolo è stato pubblicato il 27 ottobre 2014 alle ore 15:56.
L'ultima modifica è del 27 ottobre 2014 alle ore 15:59.

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Quella del data scientist è stata definita dall'economista Hal Ronald Varian «la professione più sexy del futuro», laddove l'aggettivo assume l'accezione di «interessante».
Cosa fa un data scientist
Come suggerisce il nome, analizza dati per fornire al management le informazioni utili ad assumere decisioni e disegnare strategie. Per lunghi anni si è parlato dell'importanza dei dati, ora nasce l'esigenza di saperne fare buon uso. Benché si possa credere che la figura del data scientist sia appropriata solo alle grandi aziende, un simile profilo si rivolge a qualsiasi realtà, dalle Pmi alle multinazionali. Di norma viene inquadrato tra i manager, anche dal punto di vista della retribuzione, proprio perché è con gli altri manager che deve dialogare. È una figura professionale nuova e, in qualche modo, ancora da definire. Lo scienziato dei dati non è solo un'analista, non è solo uno stratega del business, non è solo un marketer così come non è solo un information manager. Il frutto delle sue analisi copre trasversalmente tutti i reparti di un'azienda, trasformando i dati in informazioni comprensibili affinché per i vertici le strategie da assumere siano chiare e in qualche modo obbligate. Ciò si adatta anche alle Pa. Dino Pedreschi, professore ordinario di Informatica all'Università di Pisa, descrive lo scienziato dei dati come: «Una figura che deve avere più competenze. La prima è sapere gestire, acquisire, organizzare ed elaborare dati. La seconda competenza è di tipo statistico, ovvero il sapere come e quali dati estrarre, la terza capacità è una forma di storytelling, il sapere comunicare a tutti, con diverse forme di rappresentazione, cosa suggeriscono i dati». Non basta quindi una formazione in statistica, in economia o in informatica, tutte doti utili alla figura del data scientist ma che necessitano di essere mixate sapientemente.
Perché c'è bisogno di data scientist
La risposta in due sostantivi: produttività e cambiamenti. Da una parte cambiano i modelli di business delle aziende, così come cambiano le loro politiche economiche e i mercati e, dall'altra parte, vige la necessità di aumentare produttività e profitti. Un esempio reale arriva da Mario Alemi, data scientist italiano (laureato in fisica): «Le email personalizzate in base ai gusti letterari dei clienti hanno generato, nei negozi, il 27% delle vendite in più di quelle conseguite con le email generiche». Un'indagine McKinsey rileva che, negli Usa, mancano tra i 140 e i 190mila data scientist, ciò testimonia quali prospettive possa avere la professione. «Quella del data scientist sarà nei prossimi anni tra le figure più ricercate nel mondo del lavoro – continua Pedreschi – e sono sempre di più le università che preparano percorsi post-universitari aperti a tutti i curriculum».
Quale formazione è necessaria
Ci sono decine tra atenei e centri studio che offrono formazione specifica. Giuseppe Ragusa, direttore del master in Big Data Analytics della Luiss, in collaborazione con Oracle, riassume così le qualifiche necessarie per abbracciare la professione: «Il data scientist è un animale a tante teste, deve avere tre set di skill: una preparazione informatica molto solida, una buona comprensione degli aspetti tecnologici e allo stesso tempo è un conoscitore degli aspetti aziendali. Una figura professionale dotata di competenze trasversali e capace di relazionarsi con il management dell'azienda». Anche Dino Pedreschi apporta la sua esperienza di docente universitario e parlando del master in Big Data Analytics e Social Mining, dell'Università di Pisa, che partirà a febbraio 2015 spiega: «Stiamo organizzando un master apposito che si rivolge a laureati di qualsiasi provenienza, perché non ci sono requisiti stretti in ingresso, se non la voglia di mettersi alla prova con tutte le competenze necessarie, in collaborazione con il mondo industriale».
La situazione in Italia
I poli mondiali sono Usa e Uk, laddove nei primi anni del Duemila si erano già create metodologie e procedure. Alle nostre latitudini le aziende cominciano a concepire la necessità di una simile figura e cercano di formarla al proprio interno. Nel frattempo, dice Ragusa, le imprese chiedono alle università i dati di chi frequenta i corsi. Perché l'Italia stenta a carburare lo spiega Alemi: «La nostra cultura è prettamente umanistica, siamo sempre un passo indietro quando si parla di discipline scientifiche, ma sono ottimista, questo gap verrà colmato nei prossimi 5-10 anni». Il data scientist lavora con i big data ed è in questa direzione che bisogna muoversi; le anagrafiche sono il primo patrimonio di un'azienda, concetto ancora non del tutto consolidato in Italia e questo, da solo, spiega già gran parte dell'handicap che abbiamo in materia di scienza dei dati.
Cosa aspettarsi dal futuro
Una rilevazione voluta da Emc Data Science segnala che l'assenza di risorse uomo sufficientemente preparate e aziende non strutturate per il data science si equivalgono, entrambe con il 32%, nell'elenco dei principali freni allo sviluppo sia della professione, sia della crescita dell'intero settore che, ancora lontano da misurazioni di tipo economico, è comunque una costola del comparto dei big data il quale, secondo Gartner, varrà 26miliardi di dollari entro la fine del 2015.

L’articolo è uscito su Nova24 del 26 ottobre 2014

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