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Questo articolo è stato pubblicato il 23 novembre 2014 alle ore 08:12.

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aSi chiama «Richmond Standard» e si propone di fare «informazione guidata dalla comunità locale», offre notizie, cronaca e sport, è un giornale locale di Richmond, California. E finora nulla di strano. La differenza con le altre testate è che è di proprietà della Chevron, la società petrolifera da 240 miliardi di dollari di fatturato che qui possiede una raffineria che nel 2012 prese fuoco mandando in ospedale 15mila persone. Con la chiusura di molti giornali locali, ora ci si informa alla Chevron. Il principale quotidiano dell'area, il «San Francisco Chronicle», tuona contro questa compromissione fra due mestieri molto diversi per quanto simili, comunicazione (pubblicità, pubbliche relazioni) e informazione (giornali, radio eccetera). Ma la direzione è quella, le aziende che diventano editori. E non riguarda solo Richmond.
I siti azienda (od owned media) sono infatti una tendenza che nasce in epoca di native e brand advertising, il cosiddetto corporate journalism, l'informazione fatta direttamente dalle aziende. Perché uno dei pochi punti fermi della crisi dei giornali è proprio il contemporaneo trionfo, sia in termini di numeri sia di dinamiche, del mondo della comunicazione: negli Usa, secondo i dati del Bureau of Labor Statistics, per ogni giornalista ci sono ora 4,6 comunicatori, dieci anni fa il rapporto era di uno ogni 3,2. In Italia il calcolo è più complicato dato che negli uffici stampa molti hanno il tesserino da giornalista, ma il settore complessivo della comunicazione, secondo i dati di una ricerca del Politecnico di Milano e di Assiocom, ha un giro d'affari complessivo che vale circa l'1% del nostro Pil. E, nel campo delle sole public relations, il novanta per cento dei soci Assorel ha dichiarato un fatturato positivo nel 2013 rispetto al 2012. Musica rispetto al devastante panorama dell'informazione: è dal 2001 (con l'eccezione del 2006) che calano le copie vendute dei quotidiani.
Non è un caso allora che sempre più aziende si stiano convertendo in editori anche alle nostre latitudini: nella ricerca del Politecnico risulta che «il 44% delle imprese dichiara che investirà la maggior parte del proprio budget negli owned media». «Ogni società ha capito che ora può essere una media company» ha detto al «Financial Times» Richard Edelman, a capo di una delle più grandi agenzie di pr al mondo. Lo spostamento della linea di confine fra informazione e comunicazione è spinto soprattutto da grandi cambiamenti tecnologici. Da qualche settimana in lingua inglese nei risultati di Google News appaiono anche blog e post di Reddit, senza limitare più la ricerca ai soli siti di informazione. Un passo molto chiaro. La disintermediazione che permette alle aziende di rivolgersi direttamente ai propri clienti, a quelli potenziali e agli stakeholder, saltando la mediazione dei giornali, si sta facendo sempre più strada. E nuove tecnologie come programmatic buying (la vendita e l'acquisto softwarizzato degli spazi pubblicitari) e behavioural targeting (l'analisi algoritmica dei nostri comportamenti online con cui trovare nuovi clienti e mirare precisamente quelli esistenti) spingono ancora più in questo senso. Negli Usa, secondo uno studio di Idc, una società di ricerca, il 20% della pubblicità su display è venduta attraverso il programmatic buying, percentuale che dovrebbe raggiungere il 50% del mercato nel 2018. «In Italia le aziende hanno capito e nell'ultima parte dell'anno c'è stata una forte accelerazione», dice Andrea Santagata, Ceo di Banzai Media. Secondo uno studio la quota da noi è circa il 3% del mercato digitale. «Non ho dati ma secondo me anche qua siamo all'8%», replica Santagata.
Chi storce il naso non lo fa tanto perché, in teoria, comunicazione e informazione avrebbero funzioni quasi antitetiche: «Una svela e l'altra vela», secondo una distinzione classica. Ma soprattutto perché il dubbio è che si finisca solo con l'aggiungere altro rumore di fondo, – e che trovare ciò a cui credere si faccia sempre più complicato.
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