Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 10 dicembre 2014 alle ore 06:40.
L'ultima modifica è del 18 dicembre 2014 alle ore 20:02.

My24

Se non si inventa, si rinnova. In Italia prendono il largo gli incubatori di start up sociali, le piattaforme che recepiscono e trasformano in impresa le iniziative imprenditoriali calibrate su sostenibilità economica e ambientale. Qualche esempio? App biomediche, servizi di crowdfunding per la scuola, dispositivi indossabili che registrano le cartelle cliniche su un device grande quanto uno smartphone.

L'etichetta di «innovazione sociale» ha già preso forma nelle sue pratiche, ma come funziona un acceleratore a uso e consumo delle iniziative di settore? Impact Hub Milano, prima costola italiana di un network presente in più di 60 città con oltre 7mila membri, ha fatto crescere la sua community fino a un totale di 300 soci. Secondo Marco Nannini, amministratore delegato di Impact Hub, gli incubatori della categoria non divergono (troppo) dalla linea tracciata per qualsiasi acceleratore di start up. Il marchio del modello sta, semmai, nella vocazione degli aspiranti imprenditori: «Il nostro progetto funziona come un incubatore tradizionale, si parla di "sociale" in riferimento alla tipologia di start up che si ingloba» spiega Nannini.

«L'Italia ha una tradizione particolarmente solida nel mondo no profit, quindi rispetto ad altri settori c'è un po' meno cultura imprenditoriale. Lo sforzo che facciamo è creare, da qui, un modello di business». Proprio sulla creazione di business, del resto, si incentrano i programmi offerti da Impact Hub. L'organizzazione varia, a seconda di richieste ed esperienze degli start upper candidati alla collaborazione con il network: dalle consulenze specifiche di due-tre mesi alla formazione passo per passo di chi non si è mai fatto un'infarinatura imprenditoriale, con programmi di incubazione da un anno come Impact Hub Fellowship. Gli strumenti offerti sono formazione, tutor "personalizzati", incontri, autopromozione e apertura a un network che possa recepire l'azienda. Gli stessi capisaldi di FabriQ, l'incubatore di innovazione sociale del Comune di Milano gestito da Fondazione Brodolini e dalla stessa Impact Hub. Tra i filoni con più progetti in corso, Nannini cita soprattutto housing, servizi di economia condivisa e le tecnologie indossabili per sanità e sicurezza. Anche perché il principio stesso di innovazione sociale si può leggere sotto luci diverse. Come spiega Nannini, «noi non guardiamo solo le start up che operano nel settore sociale, guardiamo le start up che hanno un valore sociale: se io faccio un'impresa tradizionale come il catering, ma faccio un catering con elementi biologici, posso comunque rientrare nella categoria».

Unipol Ideas, incubatore d'impresa per l'innovazione sociale del Gruppo Unipol, sta "coltivando" le otto start up selezionate lo scorso ottobre. Il progetto si è diviso tra un corso di formazione al Mit di Boston (Stati Uniti) e 60 giorni di accelerazione intensiva curato da Make a Cube nella «residenza temporanea» di Bologna. Secondo Marisa Parmigiani, responsabile sostenibilità del gruppo Unipol, la sfide sono due: trovare il meccanismo che trasforma l'innovazione in impresa, far incontrare domanda e offerta di start up. Senza il network giusto, l'innovazione resta nell'aria: «Quello dei capitali è un aspetto fondamentale, perché bisogna costruire un incrocio domanda-offerta e non solo investitore-start up. Per start up che operano nell'innovazione sociale l'investimento non sono le infrastrutture, adatte semmai all'industria, ma come si arriva sul mercato: la comunicazione, partnership con marchi visibili». La scommessa? «Produrre lavoro. L'innovazione sociale produrrà innovazione e occupazione». (alb.ma.)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Commenta la notizia

Shopping24

Dai nostri archivi