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Questo articolo è stato pubblicato il 20 aprile 2015 alle ore 10:53.
L'ultima modifica è del 20 aprile 2015 alle ore 11:01.

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«Ci avviciniamo ai limiti tecnici del numero di transistori integrati in un microchip». Parole di Federico Faggin, fisico italiano cui si deve lo sviluppo della prima tecnologia di processo per la fabbricazione di circuiti integrati Mos (Metal Oxide Semiconductor) e basati su sistemi “silicon gate”. Eravamo a fine anni Sessanta e nascevano i primi microprocessori, fra cui l'Intel 4004, il primo componente capace di integrare in un singolo chip una potenza di calcolo superiore a quella di Eniac, il primogenito dei calcolatori elettronici. Faggin, assunto dal gigante di Santa Clara nel 1970, può essere considerato l'inventore di questo chip così come a un altro italiano, Paolo Gargini, oggi Fellow e vice-presidente per la ricerca avanzata di Intel, si deve la paternità dello sviluppo dei “building block” delle tecnologie C-Mos 286 (scelto da IBm per il suo secondo personal computer) e 386.

Quali migliori interlocutori dunque per disquisire sulla legge di Moore, il “teorema” di cui ricorre il cinquantesimo anniversario, visto e considerato che il co-fondatore di Intel, Gordon Moore, la divulgò per la prima volta nel 1965? Raggiunto telefonicamente da Nòva in Florida, Faggin ci ha ricordato innanzitutto come il teorema non sia «una legge fisica bensì un'osservazione empirica». I cui dettami sono noti: il numero di transistor dentro un chip raddoppia ogni dodici mesi. Alla fine degli anni Ottanta la legge venne riformulata per estendere a 18 mesi l'arco temporale necessario per raddoppiare le prestazioni dei processori. Oggi, ci spiega Faggin, «siamo arrivati a tre anni». E lo scenario è profondamente cambiato, anche in virtù del fatto che gli attuali componenti a 14 nanometri offrono prestazioni 3.500 volte superiori a quelle del 4004 (con un'efficienza 90mila volte maggiore). «Per creare una nuova generazione di chip ci vorrà sempre più tempo, perché ogni nuovo ciclo di sviluppo richiede sforzi superiori, lo studio e la sperimentazioni di nuovi materiali e di nuove architetture a livello di design». Concetto che trova perfettamente riscontro in una delle tante interpretazioni della seconda legge di Moore, secondo cui l'investimento per realizzare una nuova tecnologia di microprocessori cresce in maniera esponenziale con il tempo.

Si può quindi considerare ancora valida, oggi, l'osservazione del co-founder di Intel, divenuta un mantra per l'industria del silicio e un termine di paragone per misurare la velocità di innovazione (decisamente inferiore) delle altre industrie, dall'automotive a quella delle costruzioni? Sì, e di questo ne è convinto Gargini, secondo cui «la legge di Moore continuerà la propria evoluzione nel prossimo futuro, con il silicio che rimarrà un grande propulsore tecnologico grazie alle sue proprietà elettriche e meccaniche e alla sua elasticità. Entro il 2020 o giù di lì – spiega il Fellow - i transistor saranno concepiti ed usati in configurazione verticale per massimizzare la densità di impacchettamento, saranno completamente realizzati in altri materiali ma sarà ancora necessario produrli su un supporto di wafer di silicio».

Siamo vicini al limite fisico del numero di transistor da integrare nei chip ma pensare a componenti prodotti con tecnologia di processo a cinque o quattro nanometri è realistico, anche se parliamo di un'evoluzione che si potrà concretizzare nei prossimi 10/15 anni. Migliorare le prestazioni dei microprocessori, a detta dei due innovatori italiani, si può intervenendo sulle loro strutture architetturali. Pensiamo alle nuove generazioni di chip Intel multicore impreziosite dai transistor 3D (tri-gate, introdotti a partire dal 2011), e quindi sistemi che sfruttano lastre “incollate” una sopra l'altra, emulando il principio utilizzato nelle memorie di tipo flash. «Teoricamente – ci racconta ancora Faggin – si potranno sovrapporre centinaia di strati anche in circuiti eterogenei come quelli dei processori e contemporaneamente esplorare nuove strade che prevedono il ricorso a materiali come il grafene e ai nanotubi in carbonio, all'utilizzo di elettronica molecolare e di meccanica quantistica».

Parliamo, insomma, di nuove frontiere nel campo del computing, i cui frutti si potrebbero vedere fra 40 o 50 anni. Se il processo di incremento progressivo delle prestazioni dei chip è destinato a rallentare, il processo di innovazione continuerà, secondo Faggin, in modo esponenziale, perché sarà enormemente più grande l'impatto che le capacità dei nuovi componenti avranno sui dispositivi. Un esempio? Basti pensare ai cambiamenti registrati nelle telecomunicazioni con l'avvento degli smartphone. «Non ci sono limiti alle capacità di gestione delle informazioni di un computer – questa la convinzione del fisico italiano - e lo vedremo in diversi campi, dall'Internet delle cose ai device indossabili, e soprattutto nella robotica». Stiamo dunque viaggiando a passo spedito verso un mondo di macchine più intelligenti dell'essere umano? «Non c'è evidenza – si dice contrario Faggin - di una macchina realmente consapevole e capace di comprendere il contesto in cui opera. Le macchine sono programmate dall'uomo, si possono avvicinare al comportamento umano ma la tecnologia va usata responsabilmente ed eticamente, altrimenti può diventare pericolosa e generare danni incalcolabili. Cedere la propria scienza alla macchina è ridicolo». E non c'è legge di Moore che tenga.

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