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Questo articolo è stato pubblicato il 09 maggio 2014 alle ore 06:37.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:30.

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Un giudizio a dir poco scettico sulla prima misura concreta adottata dal nuovo Governo, i famosi 80 euro in più al mese per chi ha un reddito fino a 24mila lordi. E la conferma che la priorità delle priorità da affrontare è e rimane il lavoro.

Evidentemente il polso dell'opinione pubblica non cambia con un cambio di inquilino a Palazzo Chigi o in vista di una consultazione per il rinnovo del Parlamento europeo. I nodi strutturali pesano di più. E sono loro a rafforzare, sondaggio dopo sondaggio, il peso di orientamenti, aspettative, giudizi e paure che si sono cristallizzate nei lunghi anni della recessione.

Così non sorprende più di tanto scoprire che per il 57,8% di italiani 80 euro in più in busta paga non riusciranno in alcun modo a rilanciare l'economia. Veniamo da sette anni consecutivi di peggioramento del potere di acquisto, come ha confermato lunedì scorso l'Istat. Normale che il pessimismo sia prevalente anche se, alla domanda riferita al «reddito attuale», il 74,59% risponde che non beneficerà il bonus atteso. Ma "se quella somma arrivasse comunque, come verrebbe utilizzata?" è il quesito successivo. E la risposta, anche in questo caso, suona come una conferma (per esempio delle stime fatte appena due giorni fa da Federconsumi): il 66,5% ammette che li userebbe per sostenere maggiori spese e consumi mentre il 33,4% cercherebbe di risparmiali.

Solo più certezze sul mercato del lavoro, sembrano dire i numeri del sondaggio, possono riaccendere la fiducia e la propensione a consumare. Per il 74,5% degli intervistati è quella l'emergenza assoluta da affrontare: la disoccupazione, il precariato, l'ancora elevata probabilità di perdere l'impiego per chi ce l'ha. Un orientamento assoluto. La seconda priorità indicata per l'azione di governo, dal 5% dei rispondenti, è quello dello sviluppo economico, complementare a lavoro che manca, seguito dalle tasse elevate (2%) e dalla «scarsa qualità del personale politico» (3,8%). Un'indicazione del tutto coerente con i giudizi sull'importanza data agli obiettivi dell'agenda Renzi: la riduzione delle imposte sul lavoro e la riforma del mercato del lavoro da sole totalizzano il 57,7% dei consensi, mentre la riforma delle istituzioni o della giustizia non arrivano al 5%.

Il peso della crisi sui giudizi degli elettori-contribuenti dunque resta ed è elevato. Ma non per questo, ecco l'altra novità, sembra riuscito ad influenzare l'analisi più pacata sulle sue cause o i possibili rimedi. Interessante è, per esempio, il risultato alla domanda sull'uscita dell'Italia dalla moneta unica: il 69% si dichiara poco o per niente d'accordo con chi sostiene che questa sarebbe la soluzione da adottare. Solo per il 7,48% del campione sondato l'euro è uno dei fattori alla base della crisi economica, contro il 17,9% che cita il debito pubblico, il 38,9% che lo attribuisce alla classe politica e il 16,1 per cento che parla della banche, mentre solo il 9,8% fa riferimento alla finanza internazionale. Sono numeri importanti non solo perché il tema della possibile uscita dalla moneta unica è stabilmente presente nel confronto politico corrente ma s'è via via rafforzato dopo la crisi dei debiti sovrani e l'allargamento degli spread, fino a giorni nostri, con un focalizzarsi delle critiche più forti sull'elevato tasso di cambio della moneta unica, soprattutto nei confronti del dollaro.

L'euro non è in discussione, insomma. E nemmeno si deve discutere l'appartenenza dell'Italia all'Unione europea. Per il 51% è un bene far parte dell'Ue, mentre solo il 18,6% pensa l'opposto a fronte di un 30,3% di pareri neutrali. Mentre in discussione lo sono, eccome, le politiche che l'Unione europea ha impostato e difeso negli anni della crisi. Il 79 per cento degli intervistati si dice d'accordo con la necessità di un'uscita dalla stagione di forte austerity e consolidamento fiscale fin qui affrontata per dare più spazio e forza a misure di sostegno della fragile ripresa in corso.

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