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Questo articolo è stato pubblicato il 15 maggio 2014 alle ore 06:45.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:36.

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Ancora oggi, i bilanci del Comune di Napoli poggiano anche su entrate che aspettano di arrivare in cassa dal 1993, quando a Palazzo San Giacomo c'era il neosindaco Francesco Tagliamonte. Senatore Dc, subentrato a un decennio di sindaci socialisti, dopo poche settimane con la fascia tricolore Tagliamonte non poté far altro che dichiarare il primo dissesto di una grande città italiana, accollare allo Stato un mutuo da 512 miliardi e 514 milioni e avviare il «grande piano di risanamento». Il dissesto si è trascinato per 12 anni, ma il risanamento non è mai arrivato, ed è bastata una manciata di anni per riportare il default al centro della scena comunale partenopea.

Il gigantismo dei problemi, e dei tempi infiniti in cui vengono lasciati a maturare, sembrano la cifra più caratteristica nella gestione dei conti napoletani, in una continuità che dalle giunte pentapartito della Prima Repubblica è passata attraverso il bassolinismo imperante per approdare senza scossoni agli anni della rupture arancione. Per evitare il nuovo fallimento, Il Comune ha messo in piedi a gennaio 2013 un "piano di rientro", chance offerta dagli aiuti approvati qualche mese prima da un Governo Monti preoccupatissimo per gli effetti di possibili default locali proprio mentre la Spagna veniva bersagliata per i fallimenti delle sue regioni, e ha cominciato a incassare 520 milioni di anticipi statali (altri sono in programma per quest'anno). Ma a 16 mesi dal via, non si sa ancora se il piano sia legittimo. La Corte dei conti della Campania l'ha bocciato a inizio febbraio, il sindaco De Magistris ha tuonato contro «l'insensibilità politica» dei magistrati, ha fatto ricorso alle sezioni Riunite e si attende una decisione. Nel frattempo, però, sono intervenuti due Governi, quello di Letta e quello di Renzi, che non hanno trovato di meglio che battere la solita strada e allungare ancora i tempi. Se anche la Corte di Roma dirà "no" al piano, confermando l'opinione della sezione campana che ha descritto un Comune «in una situazione di deficit ormai irreversibile», Palazzo San Giacomo avrà altri mesi per scrivere un nuovo progetto, e far ripartire questo moto perpetuo.

Come si è arrivati fin qui? Sono tante le talpe che scavano buchi nei conti napoletani, dagli organici (18mila dipendenti fra Comune e partecipate) costosi e mal gestiti a un sistema di aziende comunali spesso al centro di progetti di riordino che sono costati il posto a chi li proponeva. A sostenere tutto questo c'è una colonna delle entrate robusta sulla carta, anche grazie alle aliquote dei tributi spinte al massimo, ma esile nella realtà per la cronica incapacità di riscossione che caratterizza molte voci. Nascono da qui quelli che i tecnici chiamano «residui attivi», cioè le entrate che "dormono" nei bilanci per decenni e abbelliscono gli equilibri senza mai arrivare in cassa. Grazie a loro, il Comune ha chiuso per anni in avanzo (cioè in "attivo"), destinando utili immaginari al finanziamento di spese reali. Una prima ripulitura, decisa dalla Giunta De Magistris, ha fatto scoprire nel consuntivo 2011 un deficit da 850 milioni, ma secondo la Corte dei conti il rosso reale è molto più alto e viaggia intorno agli 1,2 miliardi. Una montagna, che ogni nuovo giorno passato senza una decisione vera aiuta a far crescere.

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