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Questo articolo è stato pubblicato il 15 maggio 2014 alle ore 06:54.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:35.

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Sul caso Geithner la vera domanda da farsi è: la storia finisce qui, come danno collaterale di una campagna elettorale un po' paranoica, o è destinata ad andare avanti? In questa secondo caso bisogna essere consapevoli che si rischia uno scontro istituzionale insensato e molto pericoloso per i fragili equilibri italiani. Perché l'intervento, ieri sera, del presidente Napolitano ha cambiato la prospettiva.

Il capo dello Stato ha fatto diffondere un comunicato breve ma molto chiaro. Soprattutto su tre punti-chiave. Primo, nessuno in Europa ha fatto pressioni per cambiare il governo italiano sul finire del 2011. Quanto meno nessuno si è esercitato in tal senso alla presenza del presidente della Repubblica nei vertici o negli incontri a cui Napolitano era presente. Secondo, Berlusconi si dimise «in modo spontaneo», consapevole che per affrontare l'emergenza di quei mesi fosse indispensabile un governo tecnico. Terzo, le ragioni che Berlusconi addusse per spiegare le dimissioni avevano a che fare con le «difficoltà parlamentari» della sua compagine.

Si possono fare alcune osservazioni a questa nota quirinalizia. In primo luogo Napolitano non nega che nelle cancellerie europee il tema Berlusconi fosse allora (autunno 2011) oggetto di discussioni e valutazioni critiche. Nega che qualcuno abbia fatto pressioni con lui o in sua presenza. Peraltro è normale che nelle sedi Ue si affrontino anche le questioni interne agli Stati, specie quando queste rischiano di avere conseguenze sull'intera organizzazione comunitaria. Scandalizzarsene, oltretutto a scoppio ritardato, significa non conoscere le regole dell'Europa integrata. Oppure vuol dire che, pur conoscendole, si preferisce strumentalizzarle per alimentare la campagna elettorale. Del resto, come si può parlare di sovranità nazionale nel senso antico, quasi ottocentesco dell'espressione, quando si agisce nel recinto della moneta unica e i bilanci nazionali devono rispondere rigidamente ai criteri dettati da Bruxelles?

Sono aspetti di verità fin troppo banali, perfettamente a conoscenza di tutti i protagonisti e comprimari della vicenda del 2011. Secondo punto: circa la spontaneità delle dimissioni disponiamo di un testimone d'eccezione. È lo stesso Berlusconi che ne parlò diffusamente nelle interviste rilasciate dopo aver lasciato Palazzo Chigi. Riteneva sacrosanto che si affrontasse l'emergenza con un governo tecnico (quello affidato a Monti) e garantiva ad esso il sostegno leale del centrodestra, come poi avvenne per lunghi mesi. Terzo, l'accenno alle «difficoltà parlamentari» dell'esecutivo Berlusconi spiegano forse perché non si passò attraverso un dibattito parlamentare. Il premier non lo chiese perché era già proiettato verso la nuova, larga maggioranza tecnica che avrebbe sostenuto Monti. Un dibattito parlamentare avrebbe lacerato gli animi è reso molto più complicato l'atterraggio morbido sul nuovo governo.

Questa è la realtà dei fatti e la commissione d'inchiesta che Forza Italia chiede non potrà che arrivare alle stesse conclusioni. Finora Berlusconi e i suoi sono riusciti a non varcare il "punto di non ritorno" nelle loro accuse a Napolitano. Anzi, Berlusconi sembra concentrato sulle colpe, a suo dire, della Merkel e di Sarkozy: sul loro desiderio di "commissariare" l'Italia, cosa che per fortuna non avvenne. (Ma resta l'interrogativo posto da Guido Crosetto, di Fratelli d'Italia: come è pensabile che Forza Italia resti nel Partito Popolare dopo un simile conflitto?). L'impressione è che non si voglia calcare la mano sul Quirinale. E si capisce: farlo, dopo la nota ufficiale di ieri, vorrebbe dire delegittimare Napolitano. Un salto che Berlusconi non ha alcuna intenzione di compiere perché ben altri sono i problemi che ora lo angustiano. Una tranquilla commissione parlamentare, come propone Brunetta, è una via d'uscita assai più comoda.

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