con un "grand merci", un grande grazie, come dicono i francesi, per lo straordinario dono che ho da voi ricevuto, vorrei trovare le giuste parole per esprimere il mio imbarazzo ma anche la mia gioia.
Così, da droghiere, da esercente qual sono, faccio mie le espressioni di un famoso calzolaio. Sono le parole che Hans Sachs, calzolaio, poeta e drammaturgo, pronuncia quando, nella grande opera di Wagner "I maestri cantori di Norimberga", viene eletto alla loro guida, e dice:
"Voi non date troppa importanza, ma su di me ponete un grande peso, facendo a me, pover'uomo, troppo onore.
Se a codesto onore io non posso sottrarmi perché mi sento da voi tanto considerato, già grande onore a me è stato fatto, nell'essere stato scelto oggi ad oratore".
Grazie, dunque, Signor Preside. Come con tutta franchezza le ho detto, questo mio dire non può definirsi una lectio, sarebbe improprio. Semplicemente direi della mia vita, legata naturalmente al tema dell'architettura e dell'impresa.
La mia inclinazione ad entrambe trae origine da qualche privilegio.
L'impresa l'ho respirata fin da bambino. Classica era, negli anni ‘30 del secolo passato, una visita in "stabilimento", come da noi in Lombardia si chiamava la fabbrica, alla domenica mattina, dopo la messa. Ero un bambino, ma accompagnavo talvolta mio padre, con uno zio o qualche direttore nella loro curiosità per una nuova macchina, una nuova collezione.
E l'architettura? Non avevo dieci anni che mio padre mi portava per Fiesole ad osservare non so quale bifora o a Venezia ad indicarmi quelle pareti continue nascoste dietro la struttura portante costituita dai favolosi pizzi di marmo delle facciate dei palazzi; vetrate inventate molti secoli prima della Scuola di Chicago, dello Strutturalismo e di Sullivan.
La casa dove passavamo la buona stagione - e rifugio durante la guerra - era una grande casa del ‘600 acquistata nell'‘800 dai bisnonni, di stampo Richiniano. Così è stata definita dalle Belle Arti quando vi posero il vincolo monumentale. Richini è architetto milanese, ma di scuola romana, che a Milano ha lasciato forse il segno più grande di quel grande secolo. Il Palazzo del Senato, Palazzo Durini, il Collegio dei Gesuiti oggi Pinacoteca di Brera, Palazzo Litta, la colonna della peste al Verziere, per citarne solo alcuni.
Quel sapore suscitò in me un amore struggente per il barocco, per quell'atmosfera specialissima che emana dal Manzoni, dalla dominazione spagnola. Un'impronta che allora in Brianza ancora si percepiva, cancellata ormai negli ultimi decenni.
Però per casa si respirava anche un grande interesse per il contemporaneo di allora. Arrivavano le riviste Emporium, Domus, Casabella. Mio padre aveva una grande propensione per quello che ancora non si chiamava design. Quasi una familiarità con gli architetti Ulrich, Melchiorre Brega e più tardi con Franco Albini.
Infatti vivemmo per qualche anno a Milano in una casa pensata da Maurizio Tempestini, l'architetto fiorentino che nel 1939 progetterà la leggendaria Capannina di Forte dei Marmi. E più tardi la Bussola di Camaiore, ove ho sentito cantare l'indimenticabile Mina. I resti della Bussola, ormai abbandonata e diruta, decenni dopo, furono coinvolti nel nostro progetto del superstore di Camaiore e, dopo averla acquistata, cedemmo poi al Comune l'area debitamente liberata dalle macerie.
Infine, e finisco qui di annoiarvi con memorie di quasi un secolo fa, la mia esperienza "architettonica" approdò alla specialissima opera di Tullio Rossi, architetto romano, inizialmente collaboratore dello Studio Busiri Vici. Nel 1935, aveva 32 anni, disegnò per i Signori Falconi di Torino una villa a Forte dei Marmi, detta ancor oggi villa Nadina, che mio padre acquistò qualche anno dopo. Nessuno, credo, ha progettato ville in Maremma, a Roma, a Cortina quanto lui. Tutte sorprendenti. E le club house del golf dell'Olgiata, del golf delle Betulle a Biella, e il favoloso hotel Santavenere di Maratea.
Un architetto ludico? Non proprio, a Roma e dintorni ha progettato quaranta chiese e suo è il Cimitero Militare Americano di Firenze.
Nel dopoguerra, una laurea, un'esperienza americana, l'azienda cotoniera di famiglia mi occuparono fino - e oltre - alla fondazione di un'azienda di supermercati.
Ma prima di avventurarmi in ciò che può essere di vostro specifico interesse, cioè Ignazio Gardella ed il Razionalismo Italiano, vorrei portarvi due esempi di "architettura sul campo", vissuti da me in quel periodo con due grandi, raffinati architetti. Due interventi di restauro.
Uno a Milano con Luigi Caccia Dominioni e l'altro sul lago di Ginevra con l'architetto austriaco Henry de Heller.
Io avevo poco più di trent'anni, Gigi Caccia quarantacinque.
A Milano si trattava di una casa, non un palazzo, ma una casa tipica lombarda di una certa importanza. Corpo principale sulla strada, cortile, porticato, eccetera. Un piano terreno, alto, un I° piano "nobile" a volte, un secondo più modesto, ed il terzo costituito da un lungo basso corridoio atto solo a servire, su un solo lato, una fila di camerette di servizio.
Sulla destra uno scalone saliva e sale da quota zero al piano nobile. Sulla sinistra una tristissima scala portava al II° e al III° piano. L'esterno, i tetti, il colmo non si potevano toccare, l'immobile era soggetto a vincolo ambientale.
Curiosamente, le finestre del secondo piano erano porte-finestre, senza balconi, semplicemente protette, ciascuna, da una ringhiera.
L'architetto studiò la struttura : tra le volte del piano nobile, volte di gesso tirato su cannette di fiume, e le travi che reggevano il II° piano, c'era un vuoto di almeno 60 centimetri. Le travi del solaio erano tronchi di quercia, più il resto dell'orditura.
Giù tutto. Il livello del II° piano scese di quasi un metro e mezzo, le porte-finestre divennero normalissime finestre, con davanzale e sottostante radiatore, il nuovo solaio in travi Varese e laterizio era, al confronto, un sottile biscotto. E, sotto, le volte furono rifatte, più belle, dai gessisti dell'architetto.
Ma anche il solaio sovrastante scese, e senza la minima correzione del colmo del tetto, fu ricavato l'appartamento più bello dell'edificio. Luce, terrazzo, volte ribassate…..
Alla fine, a conti fatti, Gigi mi disse : "Non hai speso niente, il costo sta tutto in quei 400 metri che stanno lassù".
Se posso, su questo episodio, ritengo interessante un altro esempio di "architettura sul campo". Per servire le due unità del II° e del III° piano occorreva realizzare, sulla sinistra, una scala. Di scale circolari Gigi Caccia ne aveva realizzate diverse : in casa Aletti, nella casa di Leopoldo Pirelli….. Ma qui l'altezza dei due piani, terreno e primo, obbligava ad un'elica il cui diametro non lasciava spazio per passare dal corpo centrale dell'edificio alla sua ala sinistra. Mi venne un'idea e dissi : "Gigi, perché non la facciamo ovale, con due centri?". Per fare le casseforme e predisporre i ferri ci misero due mesi ed ogni gradino di pietra è diverso dall'altro. Io non sapevo cosa dicevo, ma la scala è uno spettacolo.
Sul lago di Ginevra si trattava di riattare una casa di una certa importanza. La facciata principale, a sud, dava su un grande terrazzo, grande davvero, con quattro alberi secolari. La vista era sul lago, la Savoia, il Monte Bianco. Sulla destra, a 30 chilometri, Ginevra, sulla sinistra, stessa distanza, Losanna.
Però, proprio davanti alla casa, attraverso un breve viale, arrivavano le automobili. Era l'accesso e anche il parcheggio. Fin che si trattava di cavalli, poteva andare, ma con le macchine…..
L'architetto girò il tutto di 90 gradi. Allungò la casa sulla destra e inventò una nuova facciata. I due spazi erano, sono, separati da un torrione e per dividere questo nuovo cortile di arrivo e di stazionamento dalla retrostante fattoria, de Heller si inventò un muraglione con un'arcata piuttosto importante. Qualche anno dopo, le Belle Arti della Confederazione, in una visita sul luogo, presero il tutto per buono e misero un vincolo monumentale.
Dopo questi divertissements possiamo tornare a cose più serie, alla fondazione cioè di Supermarkets Italiani S.p.A., anno 1957.
L'iniziativa era americana, del gruppo guidato da Nelson Rockefeller, nipote di quel Rockefeller che a fine ‘800 aveva fondato la Standard Oil - Es - O, cioè la Esso, la preminente società petrolifera.
Questo è l'inizio dell'avventura che è forse di vostro interesse, ma occorrono un paio di antefatti.
L'azienda doveva innanzi tutto trovare un nome ed un'insegna per i negozi. Feci il primo grande errore insistendo con gli americani nel chiamarli con la semplice dizione "supermarket". L'etimologia era latina, di facile comprensione. La parola era americana e l'America allora era in voga, la liberazione era ancora recente.
Ma supermarket era nome comune, non registrabile, dunque commisi uno sbaglio madornale.
Io ero molto amico di Max Huber, un grande grafico col quale lavoravo nel tessile. Disegnò la parola supermarket con una grande esse allungata.
Tra il '57 ed il '67, di supermercati ne sorsero tanti e noi portavamo un'insegna che non significava niente. Fu la gente che cominciò a chiamarci "il supermercato con la esse lunga"! ecco, la potenza della grafica, del segno.
Max Huber, il carissimo Max, diede il nome all'impresa, fu lui che la battezzò.
E lì commisi il mio secondo errore, anzi il peccato mortale che qui io debbo confessare.
Quando, liquidati gli americani, presi in prima persona la direzione dell'azienda ed il suo sviluppo – a metà degli anni '60 – ripulii un po' l'aspetto esteriore, scelsi delle ceramiche o dei cotti un po' più decenti per la parte in muratura dei negozi, ma la parte superiore rimase di lamiera, anzi di alluminio preverniciato bianco del quale ora arrossisco. Finché erano piccoli…., in città…., ma quando iniziammo ad uscire e ad ingrandirci…. Erano proprio cugini di quei brutti, brutali contenitori commerciali prediletti dai francesi. Un'offesa all'occhio.
Mi sono sempre chiesto come mai i discendenti di gente tanto grande, continuino a violare l'ambiente e perché. Sono pur sempre i discendenti di Le Nôtre, di Mansart, l'inventore della mansarda, ricordatelo quando capitaste in Place Vendôme a Parigi, e gli ideatori del gotico. Il Vasari ha sviato tutti chiamando così quello stile, anzi quella tecnica, e lo fece per definirlo barbaro. Ma il gotico è francese. Saint Denis, Chartres, Reims.
Tornando a me e alle mie pecche, devo aggiungere un'aggravante : nel 1960 l'azienda, quando costruì il IV° negozio in Viale Zara a Milano, il primo su un lotto di terreno libero, non il solito garage riattato, si avvalse della collaborazione di Giò Ponti. Era un negozio di 800 metri, divenne obsoleto e fu abbattuto. E dimenticato.
Dunque, per quanto mi riguarda, fu soltanto l'incontro fortuito e quasi obbligato con un grande a portarmi sulla retta via.
Conoscevo Gardella da tempo, le nostre mogli o compagne, Pao e Giuliana, erano amiche, "ci davamo del tu". Ma a lavorare assieme neppure ci avevamo pensato.
Agli inizi degli anni ‘80 avevamo comprato ad Alessandria in Piemonte parte della fabbrica della famosa Borsalino per realizzarvi un supermarket. Fu l'amministrazione comunale di Alessandria ad indirizzarmi - senza costrizione alcuna - ad Ignazio Gardella.
Gardella ad Alessandria aveva fatto, negli anni '30, il dispensario antitubercolare, opera fondamentale del Razionalismo italiano e, appena dopo la guerra, delle splendide case per la Borsalino, appunto.
Lui per noi fece subito una cosa bella. Diede dignità e corpo ad una funzione commerciale di base.
Lavorammo in grande armonia. Era un uomo di straordinaria finezza. Al compimento di questo primo negozio, gli chiesi se, pur avendo la necessità di una connotazione commerciale precisa, dell'identificazione da parte dei terzi dei nostri punti di vendita, lui sarebbe stato disposto a farmene altri. Rispose "Volentieri, Bernardo, e saranno tutti uguali ma tutti diversi l'uno dall'altro". Iniziò una straordinaria storia d'amore, quella per la quale in realtà io sono qui. Gardella è stato per l'immagine di Esselunga, ciò che Max Huber era stato per la sua identità.
A loro va la nostra gratitudine ed il nostro deferente, affettuoso ricordo.
Spero di non avervi troppo annoiato e, trascorsi ormai venti minuti, propongo di entrare in quella che può essere una breve lectio su Gardella ed il suo movimento.
In questo, lo dico apertamente, ho chiesto l'aiuto dell'architetto Fabio Nonis, di Gardella allievo e continuatore, qui presente.
Dunque, attraverso l'incontro con l'uomo, l'amico, l'architetto, chi, cosa Esselunga ha veramente incontrato?
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Ignazio Gardella nasce a Milano nel 1905 da una famiglia di architetti da quattro generazioni. Si laurea in ingegneria al Politecnico di Milano e nei primi anni 30 si aggrega al gruppo degli architetti razionalisti milanesi Pagano, Bottoni, Terragni, Lingeri, Figini e Pollini insieme con altri giovani architetti della sua generazione come Albini, Palanti, i BBPR e altri. Il gruppo milanese era uno dei pochi che si opponeva alla corrente dominante dell'architettura "accademica" che esprimeva la posizione ufficiale del regime fascista. Un'opposizione culturale, perché l'opposizione politica si svilupperà più tardi. Sono di questo periodo i viaggi in Germania e nei Paesi Scandinavi (dove conosce e diventa amico di Alvar Aalto) che rappresentano delle vere e proprie rotture dell'isolamento culturale italiano di quegli anni.
Appena trentenne, conquista la copertina di Casabella con il progetto per il concorso di una Torre in piazza del Duomo a Milano. In questo progetto e nel successivo Dispensario Antitubercolare di Alessandria sono già presenti i caratteri del "razionalismo italiano" di Gardella. Sono progetti che abbracciano il movimento moderno ma contengono già quegli elementi di rottura e di indipendenza dal modernismo che si affermeranno compiutamente nel primo dopoguerra. Nella Torre, dove Gardella trascende il reticolo razionalista della struttura differenziando la trave e il pilastro per riferirsi al rapporto "trilitico" fra trabeazione e colonna. E soprattutto nel Dispensario, dove inserisce in una parete stereometrica di vetrocemento e vetro un grigliato di mattoni ripreso dai fienili delle cascine padane, per creare un rapporto con la propria tradizione, con la coscienza della propria storia.
Nel dopoguerra, anni quaranta/cinquanta per intenderci, quando l'attività della ricostruzione porta gli architetti razionalisti italiani a concentrarsi sulla città, le sue stratificazioni e la sua storia , il razionalismo che all'inizio era stato "importato" in Italia assume una sua peculiarità che ci permette di parlare di un autonomo movimento moderno italiano nel contesto del movimento europeo. La specificità del razionalismo italiano per Gardella si basa principalmente su due caratteri: l'antidogmatismo e la classicità.
Il primo deriva dal fatto che gli italiani, abituati storicamente alle dominazioni straniere e alla vicinanza alla sede papale, hanno sviluppato un innato scetticismo diffidando dei dogmi. Infatti i giovani architetti razionalisti erano disposti a seguire lo slogan "tutto ciò che è utile è bello" a patto che tra le funzioni utili ci fossero la comunicazione poetica e l'artisticità. Secondo Gardella quello slogan si potrebbe rovesciare in "tutto ciò che è bello è utile" in quanto la categoria del bello contiene in sé quella dell'utile. Qui Gardella per spiegare questa affermazione cita Platone rilevando che "se è vero che anche gli occhi brutti, gli occhi cisposi, possono essere utili per vedere, è però ancor più vero che gli occhi belli sono quelli che sono fatti in modo da essere capaci di vedere con più penetrante chiarezza E per questo sono belli, nella forma, nel colore, nella luminosità, nell'ombreggiatura delle ciglia, ma anche in quel profondo e misterioso riflesso del pensiero che in essi si coglie" e Gardella aggiunge: "Proprio come in un'architettura bella, in un'architettura autentica si coglie il riflesso di un mondo più vasto del limitato e arido mondo utilitaristico".
Il secondo carattere è la classicità. Una classicità che per Gardella è intesa al di là del tempo e al di fuori di ogni classificazione storica, come il continuo desiderio e la costante volontà di ricercare un ordine, una misura, una modulazione che rendano le architetture chiaramente percepibili nella luce del sole mediterraneo. Un fatto, questo, che permette di riconoscere anche nel romanico, nel gotico e nel barocco italiano una costante vena di classicità. E non c'è contraddizione tra questi due caratteri perché la classicità ha le sue radici nell'ordine della ragione e la ragione è per sua natura contraria al dogma. Tutto ciò ha generato la specificità dell'architettura italiana e l'attenzione a valori come la storia, il luogo e, soprattutto, l'uomo visto non come concetto astratto ma come uomo vivente nell'oggi, con il suo passato e le sue prospettive future.
Questa visione è chiaramente espressa nel Padiglione di Arte Contemporanea (il PAC) di Milano del 1948. Durante la ricostruzione postbellica Gardella progetta per la città che si vuole risollevare uno spazio moderno nello straordinario contesto storico della Villa Reale. Un'opera che proietta Milano sulla scena internazionale, rappresentando valori di raffinatezza e di eleganza propri della nostra cultura; un contributo italiano al mondo dell'architettura. Un padiglione di luce che anche per le sue ricerche e innovazioni tecnologiche sarà pubblicato ovunque.
Mi si consenta di ricordare che dopo l'attentato del 1993 con la bomba che lo distrusse quasi completamente, Esselunga ha contribuito in maniera determinante alla sua ricostruzione.
Gardella ha sempre partecipato attivamente alle varie stagioni della cultura architettonica, in alcuni casi anticipandone gli sviluppi e le tendenze (come nel caso del Dispensario di Alessandria e nella Casa alle Zattere di Venezia). La straordinaria varietà delle opere è la conferma dell'efficacia di un metodo che coinvolge la storia e l'attualità, la funzione e il radicamento nel luogo, le tecniche costruttive e i materiali. Un'analisi della realtà che a ogni causa fa corrispondere un determinato campo di possibilità di alcuni effetti. Questo non vincola l'esito formale, permettendo di liberare una poetica individuale. L'architettura, insomma, intesa come opera d'arte che ha come elementi qualificanti la comprensione e la possibilità di comunicare; il momento creativo, quindi, come momento della massima razionalità. E' utile qui ricordare le parole dello stesso Gardella sul metodo - il suo metodo - che è stato fondamentale per il successo della nostra collaborazione:
"La forma è l'esito finale di una ricerca che deve percorrere e interpretare la realtà che sta sotto l'architettura, che è quello che la sostanzia e che non si ripropone mai identicamente, cioè al cambiare delle condizioni spazio-temporali cambiano anche le condizioni che determinano l'esito finale. Dobbiamo quindi percorrere criticamente tutta la catena di successivi atti attraverso cui si compie la progettazione. In questo processo non c'è la possibilità di salti. Anche se apparentemente un genio può percorrere più rapidamente questa catena, questa catena va però sempre continuamente percorsa".
Quando incontrai Gardella ad Alessandria i tempi erano maturi per una sintesi architettonica. I nostri supermercati sono concepiti come delle "machine" dove i rapporti tra le varie parti dell'edificio sono il frutto di anni di progettazione e razionalizzazione dell'organizzazione interna delle attività che svolgono gli addetti e del flusso dei clienti e delle merci. Una continua elaborazione e ottimizzazione attenta all'evoluzione del lavoro, ai prodotti, ai gusti e alle abitudini dei clienti, etc. Il motore della "machine" c'era. A questo sistema funzionale, razionale, mancava una sintesi architettonica che desse rappresentazione a un tema - quello dell'edificio commerciale – al quale nessun architetto fino ad allora si era dedicato in maniera sistematica, interpretandone la natura specifica e "sdoganandolo" nel mondo.
Il contenitore commerciale è un oggetto fortemente introiettato, la cui distribuzione e organizzazione funzionale non discendono necessariamente da logiche architettoniche. Perché funzioni è sufficiente che i rapporti con l'esterno risolvano i problemi della logistica e dei flussi veicolari. Il contesto spesso è rappresentato soltanto dalla sommatoria delle normative (urbanistiche, igieniche, commerciali, edilizie, ambientali, vincolistiche, di sicurezza, etc.) ricadenti astrattamente sul luogo e la "rappresentazione" è demandata all'insegna.
E' quindi la sintesi di questi tre aspetti - l'organizzazione funzionale e logistica, la localizzazione sul territorio, la rappresentazione e valorizzazione architettonica - che porta all'individuazione dell'"edificio supermercato" come un nuovo tipo architettonico.
Il primo fondamentale passo in questa direzione lo abbiamo compiuto con Ignazio Gardella, affrontando il contenitore commerciale come un "edificio". Evitando di decorare un capannone o raffigurarlo come un oggetto di design a una scala gigante, Gardella considera il supermercato un edificio e lavora per conferirgli la dignità e il decoro che spettano a un edificio. La strategia è quella della chiarezza volumetrica e della costruzione delle facciate con elementi e materiali tipici e riconoscibili degli edifici: il paramento murario, gli architravi, il coronamento, l'ingresso, lo spazio destinato all'insegna, etc. La composizione di questi elementi genera un'architettura unitaria che si rifà alla tradizione costruttiva e rende il supermercato un edificio che si relaziona con altri edifici, capace di rappresentarsi sulla scena urbana con un proprio ruolo ben definito e riconoscibile, senza mimetismi e stravaganze.
Il passo successivo è stato il contributo alla costruzione di luoghi pubblici, interni ed esterni, conferendo all'insediamento commerciale un ruolo di raccordo tra diverse scale. Gli interni si costruiscono come dei luoghi di socialità muovendo dalla tradizionale galleria ottocentesca verso i grandi contenitori di flussi contemporanei (stazioni, aeroporti, etc.). All'esterno si costruiscono pezzi di città: il fronte di una strada, un porticato che accoglie e protegge dal sole e dalla pioggia, uno spazio pubblico aperto dove ci si incontra o si passa o si sta, spazi verdi, attrezzature e infrastrutture.
Ed è così che uno dopo l'altro, tutti uguali ma tutti diversi, con Ignazio Gardella abbiamo realizzato più di quaranta "edifici urbani", definendo l'impostazione, "il campo", anche per gli interventi successivi.
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Tornando all'episodica, vorrei raccontarvi ancora qualcosa della mia avventura personale.
Gardella, oltre ai negozi, ci ha fatto anche due palazzi per uffici. Per quello di Milano, raggiungendo ogni piano la superficie di 900 o 1.000 metri, i pompieri ci imposero una seconda scala. Tra ascensori, sbarchi e scale, non c'erano più gli uffici. Gli dissi, pensando modestamente a quelle scale esterne in metallo tanto diffuse negli U.S.A., "portiamole fuori".
Non l'avessi mai detto, Gardella fece due specie di torrioni, esterni; il retro è più interessante del fronte.
Intanto lavoravamo con altri maestri. Mario Botta ci ha fatto un capolavoro a Firenze. Un negozio con una grande volta, tagliata da una lama di luce naturale al vertice, e sul fondo una grande parete vetrata, come fosse l'abside di una chiesa. Non voleva colori, solo bianco e nero. Neppure quella striscia verde che c'è in tutti i nostri reparti dei prodotti deperibili proprio per dare loro un po' di colore. Solo bianco.
Questo mi indusse a ripensare ai colori dei banchi refrigerati. Erano, fino ad allora, di colori diversi, a seconda dei reparti. Oro bruciato per la frutta e verdura, bleu per il pesce, celestino per i surgelati….. e così via.
Però le casse, già nei nostri negozi esistenti, erano di un rosso che mi ero inventato anni prima. Un rosso che direi profondo, non poi troppo scuro. Ma un rosso che assorbe molto la luce, non disturba, quasi non lo si nota.
Unificai i colori dei banchi. E così, bianco, nero e rosso….. il giuoco era fatto. Per il pavimento avevo scelto un Carrara marezzato di nero. Scusate, uno schianto.
Botta ci progettò poi altri due negozi, ma "non passarono". Così diciamo in gergo di qualcosa che nell'urbanistica italiana accade regolarmente. Ho trascorso da Mario Botta un'intera giornata, da lui, forse un paio di anni fa. Botta aveva da poco terminato il rifacimento della Scala. Mi mostrò tanti progetti, ne aveva in Italia - credo di ricordare - 43, ma nessun cantiere. Mi disse : "Cosa vuoi, voi in Italia avete le litanie".
Con lui e con Gardella sono stato insignito, contestualmente, nello stesso giorno, del titolo di accademico di Brera….. Ricordi di un vegliardo.
Gigi Caccia c'ha fatto tre bellissimi negozi. Il più bello, ed uno dei più belli in assoluto, è quello di Macherio, un comune appena a nord di Monza. Lui lì ci ha spostato in su l'insegna, in parte contro cielo. Caso unico, mondiale!
Dire dell'approccio fantastico di Renzo Piano al nostro tema, o dei tanti magici incontri con Norman Foster sarebbe troppo lungo.
Però vi ruberò ancora tre minuti con quel pezzo unico di eleganza e di modestia che fu Vico Magistretti, dolorosamente scomparso tre anni or sono.
Il superstore da lui disegnato per noi su una strada consolare poco fuori Milano stava per essere terminato, quando gli chiesi se per quel "suo" negozio non voleva disegnare un bar che ne fosse degno. Infatti stavamo balbettando allora - sia come gestione che come impianto - coi primi nostri bar, disegnati da un tale assai noto, che li aveva concepiti con due grandi banconi posti ad angolo retto con, al centro, dietro lo spigolo, la magica macchina italiana del caffè, la bestia attorno alla quale il lavoro, nei momenti di punta, diventa….. furioso. Accoglieva 3, 4 avventori, nell'angolo. E gli altri? E, se si fossero assurdamente distribuiti lungo i banconi, gli addetti come avrebbero potuto servirli?
In azienda questo strafalcione fu chiamato in modo che qui non posso dire; diciamo pure "i bar schiena conto schiena".
Così dissi : "Vico non faresti il bar?". Lui, con quel candore che gli era proprio, mi rispose : "Io i bar non li so fare, ne ho fatto uno cinquant'anni fa all'Hotel Atlantic di Copenaghen e qualche anno fa uno per il golf di Garlenda". "Vico" dissi "lasciami fare, comprerò i libri sui bar". Mandai ad acquistare all'Archivolto, la libreria di Milano specializzata in architettura, design, eccetera, tutti i libri sui bar di cui disponessero. Uno. Mi fu d'aiuto, ma io avevo una mia convinzione. Il bar deve essere un luogo di incontro, di aggregazione.
Disegnai un bar circolare, al centro la macchina, sul diametro esterno potevano starci anche 18/20 persone. Ergonomicamente, per gli operatori erano eccellenti, due passi.
La cosa gli piacque. Accettò per i ripiani il Labrador, già da me scelto due o tre anni prima. È una pietra che è l'antitesi, ad esempio, del Carrara. Non si macchia, non si riga. Appare preziosa ed è meccanicamente durissima.
Le pareti? Betulla, rigorosamente finlandese. Imparai che quella finlandese è perfetta, senza nodi; la russa è piena di nodi.
Un giorno Magistretti arrivò da me con un vaso di Sèvres, Luigi XV, settecento francese. Il bleu di Sèvres è inconfondibile e lui voleva una ceramica di quel colore. Introvabile, la fecimo fare apposta per noi in Sardegna, da Cerasarda. Chiesi di appendere tutt'attorno, sopra il banco circolare, le lampade di Castiglioni, una festa per gli occhi. Anche questo gli piacque e così partimmo, quattro, forse cinque anni fa, con questo modello. Ne abbiamo fatti 48, ne faremo ancora.
Tornando però per un attimo a questo minuscolo progetto industriale, mi sento proprio di dover trasmettere, a voi futuri architetti, il seguente non piccolo dettaglio. In rari casi il bar tondo non ci sta – come a Castellanza-Varese o a Reggio Emilia - e abbiamo dovuto appiattirlo, da tondo, ad un settore di cerchio.
Mi sono sentito dire dal capo, un siciliano doc : "Dottore, se non si può fare altrimenti….. ma sappia che mediamente in un bar facciamo 6.000 caffè per settimana. Occorrono due passi in più, sono 12.000 passi, ma se non si può fare altrimenti….."
Ecco, questa è architettura. È funzione. Spazio, tempo e architettura.
Consentitemi, e ho finito, di dirvi cosa io penso di questa appassionante, infinita materia.
Vedo l'architettura come la forma più intima e fondante della vita dell'uomo. Espressione dei suoi luoghi e dei relativi materiali, dunque il prodotto della necessità e delle abitudini di vita. L'architettura forgia poi i luoghi del nostro vivere, del lavoro, dell'abitare, dell'incontrarsi. Disegna la nostra vita.
Sul Wall Street Journal del 23 dicembre, ho letto che in America c'è un po' di ripresa, la vendita di case è salita in novembre del 7%, portando il tasso annuale di vendite a 6.540.000 unità. Quali siano le "housing starts", cioè le case di cui si inizia la costruzione, in questo caso non si dice, benché questo sia uno dei tanti indici usati abitualmente in America per monitorare l'andamento dell'economia. Normalmente è una cifra che si aggira sul milione e mezzo di case al loro inizio. Come fossero automobili. Ma che case sono? Case con la struttura in legno, con attorno il loro praticello.
Ecco, io penso che difficilmente si possa esprimere il concetto dell'architettura, del vivere e infine dell'urbanistica, meglio del passo di Tacito nel suo "de Germania". Ne fui folgorato quando frequentavo il liceo classico e credo sia interessante riportarlo integralmente :
"È noto che le popolazioni germaniche non vivono in città, e neppure sopportano dimore tra loro vicine. Le abitazioni sono lontane e separate, presso una sorgente, o in un campo, o presso un bosco. I Germani non edificano i villaggi – così come facciamo noi – con case affiancate tra loro e che aderiscono le une alle altre; ogni edificio è circondato da uno spazio libero, sia per prevenire gli incendi, sia per l'imperizia nel costruire. Non conoscono infatti l'uso di pietre lavorate né di mattoni. Per ogni tipo di costruzione si servono di legname grezzo….."
Io lascio a Tacito chiudere con queste sue parole le mie divagazioni.
Dal canto mio posso solo ringraziarvi per la vostra pazienza nell'averle ascoltate, e per il dono che mi avete fatto.
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