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Questo articolo è stato pubblicato il 17 gennaio 2013 alle ore 07:04.

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Mentre la crisi reale morde più crudelmente, mentre i mercati finanziari saggiano possibili ripartenze, le imprese affinano i budget. Parola d'ordine: vendere fuori dell'Europa. Vi contribuiscono i consuntivi dei mesi passati e alcuni fondamentali. Dinamica demografica e costo dei fattori produttivi sostengono la competitività delle aree extraeuropee e quindi la crescita prospettica delle loro produzioni e dei loro redditi; dotazioni ancora scarse di beni e servizi privati e pubblici prospettano propensioni alla domanda, a parità di reddito prodotto, e dinamiche della stessa maggiori di quelle dei Paesi sviluppati.

Da tutto il mondo si vuole investirvi, il che aggiunge una componente di acceleratore keynesiano a un quadro già di per sé allettante. Per l'Italia i mercati extraeuropei rappresentano solo il 44% delle esportazioni, che a loro volta costituiscono solo il 28% del Pil contro il 50% della Germania. Una collocazione delle produzioni che, a parità di altri fattori, determina un differenziale negativo di crescita.
Ma una parte delle nostre esportazioni apparenti verso l'Europa ha in verità una destinazione esterna: siamo infatti tra i leader mondiali nella produzione di molti componenti e semilavorati che esportiamo verso Paesi, per esempio la Germania, che li incorporano in sistemi a loro volta esportati nel resto del mondo. La domanda finale che alimenta le nostre produzioni è quindi probabilmente un po' meno europea di quanto non appaia, mentre la nostra offerta esportativa sembra non essere così squilibratamente manifatturiera come spesso si crede: secondo Ocse e Wto il 51% delle esportazioni lorde dell'Italia è rappresentato da valore aggiunto originato dal settore dei servizi.

Sottostanti a queste cifre stanno mutamenti strutturali che le imprese, con investimenti e sforzi non indifferenti, hanno realizzato a partire dall'adozione dell'euro, che ha mandato in soffitta la falsa competitività del cambio drogato. Innovazione dei prodotti e penetrazione nei mercati lontani sono stati i cambiamenti esterni più evidenti, non facili per un sistema di imprese non grandi.
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Meno visibile ma non meno importante è stato il rimodellamento delle organizzazioni aziendali: concentrazione sulle operazioni contenenti vantaggi competitivi, razionalizzate, esternalizzando le altre verso fornitori specializzati. Da qui nasce l'elevato contenuto di servizi nel valore lordo delle esportazioni manifatturiere. Il che porta a cercare di calcolare, come suggeriscono Ocse e Wto, il contenuto di valore aggiunto nazionale nelle esportazioni: un euro esportato non dà lo stesso contributo di occupazione e benessere nazionale indipendentemente dalla combinazione produttiva sottostante.

Inevitabile allora chiedersi di quanto migliorerebbero l'occupazione e il benessere nazionale se non soltanto il contributo al Pil delle esportazioni italiane salisse a pareggiare quello tedesco; ma soprattutto di quanto migliorerebbero se invece di esportare prevalentemente componenti e intermedi che alimentano la competitività altrui ci mettessimo in grado di esportare più spesso i sistemi completi, con il loro maggior contenuto di tecnologia, professionalità, potere di mercato. Quale che sia la risposta, a me pare chiaro perché non siamo oggi in grado di farlo: troppo poche imprese riescono in Italia a gestire le dimensioni e le complessità organizzative che consentono di raggiungere quegli obiettivi.

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