L'indagine ha analizzato le performance, a 7 anni dall'emissione, di un campione di 70.000 bond emessi nel periodo compreso tra il 1970 e il 2001. In questo spazio temporale sul totale dei bond poi falliti, a circa il 10 per cento era stato assegnato in origine un rating medio-alto (investment grade). Ma il dato cela due realtà diverse: in periodi di stabilità del ciclo creditizio la percentuale di classificazioni errate scende all'8 per cento, quando invece la tensione sale arriva al 21 per cento. Lo studio ha identificato il quality spread (differenza tra il tasso che il mercato chiede per investire in un bond Baa di qualità media e per acquistare un bond Aaa di qualità massima) come indicatore per distinguere i periodi di tensione e quelli di stabilità.
«Questo non significa certo che i rating siano inaffidabili o che le agenzie non conoscano il proprio mestiere», spiega Andrea Resti, direttore del Carefin Bocconi, ma «al contrario, la nostra analisi mostra poi che il rating é comunque il principale criterio utilizzato dagli investitori nel decidere quale tasso richiedere per acquistare un bond.»
La seconda parte dello studio, infatti risponde al quesito su quale ruolo svolge il rating nel determinare le preferenze degli investitori.
Analizzando un campione di 2.300 bond emessi tra il 1999 e il 2008 è emerso che il rating assegnato dalle agenzie, insieme a fattori come il regime fiscale e la liquidità, giustifica in larga parte i tassi applicati sul mercato. Resta però una porzione non spiegata, compresa nella differenza tra le previsioni del modello statistico utilizzato nello studio Carefin e i tassi applicati, che aumenta nelle fasi di tensione sui mercati. Questo suggerisce ai ricercatori che gli investitori sappiano che in quel momento i rating sono meno precisi e affidabili, il mercato più opaco e le imprese più difficili da valutare.
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