Negli uffici di Teheran della Nioc, la compagnia petrolifera di stato, una grande foto in bianco e nero dai riverberi color seppia mostra i tecnici dell'Eni di Enrico Mattei che nei primi anni 60 si arrampicavano con equipaggiamento da pionieri sui Monti Zagros. È appesa a quel muro dai tempi dello shah e c'è rimasta anche dopo la rivoluzione degli ayatollah che nei loro libri di storia assegnano un ruolo di primo piano al presidente dell'Eni e al suo tentativo di fare concorrenza alle Sette Sorelle.
Da allora e per 50 anni le relazioni economiche e politiche tra l'Italia e l'Iran non si sono mai interrotte, neppure nei momenti peggiori: quando negli anni 80 Teheran combatteva contro gli iracheni nelle paludi dello Shatt el-Arab, le imprese italiane furono le uniche che non abbandonarono mai la piazza. Aiutavamo l'economia ma anche lo sforzo bellico dell'Iran attaccato da Saddam Hussein. Questa è stata una delle ragioni fondamentali che in seguito ha consentito importanti accordi economici bilaterali e alle nostre società un ruolo di primo piano.
L'Italia, alla fine degli anni 90, fu anche il primo paese europeo, dopo la "crisi degli ambasciatori", a ristabilire contatti di alto livello con gli ayatollah e a sostenere il tentativo riformista dell'ex presidente Khatami eletto nel '97. Importanti, anche sul piano internazionale, furono quindi le visite a Teheran dell'allora ministro degli Esteri Lamberto Dini e poi anche del premier Romano Prodi.
Furono gli stessi iraniani, quando l'Italia era presidente di turno Ue, a spingere perché Roma, nell'estate del 2004, accettasse di entrare nel gruppo di paesi che dovevano negoziare sul nucleare (i cinque del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e la Germania). L'Italia declinò l'offerta, avanzata da Gran Bretagna, Francia e Germania, perché intendeva mantere una posizione di "equidistanza" tra le parti: in poche parole non voleva entrare in rotta di collisione con un partner commerciale importante e allo stesso tempo rischiare frizioni diplomatiche con un alleato storico come Washington.
I rapporti tra Italia e Iran hanno sempre suscitato apprensione da parte americana. «Anche se Usa e Italia cooperano strettamente su numerosi temi ci sono alcune posizioni della politica estera italiana che continuano a preoccuparci», aveva dichiarato in luglio alla Commissione esteri del Senato Usa il nuovo ambasciatore in Italia David Thorne. Lo stesso Thorne di recente ha detto: «Siamo preoccupati che Teheran sviluppi armi nucleari e intendiamo gestire le relazioni con l'Iran in un fronte unito. Vogliamo essere certi che tutti, Italia compresa, partecipino compatti a questa gestione».
La diplomazia italiana si è comunque sforzata di esercitare con l'Iran di Ahmadinejad un ruolo di mediazione. Non con troppa fortuna però, almeno a giudicare dai risultati recenti. In primavera il ministro degli Esteri Franco Frattini - in vista della riunione di Trieste sull'Afghanistan - aveva espresso l'intenzione di andare in missione a Teheran ma il viaggio saltò perché Ahmadinejad gli propose di riceverlo nella città di Semnan, dove gli iraniani avevano appena sperimentato il lancio di un missile. In fondo, con il senno di poi, fu meglio così: erano alle porte le elezioni presidenziali che di lì a poco avrebbero precipitato il paese in un'ondata di proteste popolari e poi nella spirale della repressione. Peraltro neppure il presidente iraniano, a Roma nel 2008 in occasione del vertice della Fao, era stato ricevuto da rappresentanti del governo: si era dovuto accontentare di un incontro con gli operatori economici durante il quale comunque affermò che «l'Italia è un paese amico, il più amico di tutti, e l'Iran è la nazione più sicura di tutte per gli italiani».
La realtà è che l'Italia, con 6 miliardi di interscambio, è il primo partner europeo dell'Iran. Teheran è anche il nostro quarto fornitore di petrolio con 3,6 miliardi di euro e 9,6 milioni di tonnellate, dopo Libia, Russia e Arabia Saudita. Non è quindi solo l'Italia a temere le tensioni sul nucleare e un rallentamento del business: l'atomica dei pasdaran rischia di cambiare quell'equazione tra Corano e metano che da trent'anni segna i rapporti con la repubblica islamica.

 

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