«Alla catena di montaggio, nei miei sei mesi da operaio, per farmi perdonare dei pezzi che mi scappavano di mano raccontavo romanzi. I tre moschettieri e Il Conte di Montecristo, per esempio. E le operaie si lamentavano perché non conoscevo i romanzi rosa». Furio Colombo, giornalista e uomo politico, è stato uno dei ragazzi di Adriano Olivetti. Anche a lui, al primo incontro, l'ingegnere di Ivrea ha detto «io voglio che lei conosca il buio del lunedì», all'ingresso in fabbrica alle sei e mezza di mattino, in un'ora fredda come l'aria della vicina Valle d'Aosta e umida come i laghi e fiumi del Canavese.

Insieme allo scrittore Ottiero Ottieri, Colombo si occupava di selezionare i giovani che, pur partendo da posizioni basse, sembravano disporre di notevoli potenzialità. «Ricordo un perito industriale di nome Federico Faggin – dice Colombo – nel 1970, nella Silicon Valley, alla Intel avrebbe inventato il primo microprocessore». Sì, perché la Olivetti di Adriano riusciva a non pagare pegno alle rigidità tipiche di un organismo industriale fordista. «Nel 1958 – ricostruisce Elserino Piol, a lungo capo delle strategie del gruppo e poi venture capitalist – mi nominò dirigente. Avevo 28 anni, da sei ero in azienda. Un semplice perito elettronico, senza la laurea. Non sarebbe potuto accadere in nessuna altra impresa italiana». L'elettronica Olivetti. Rispetto alla meccanica, una diversificazione che con tutte le vicende successive alla sua morte – prima di ogni cosa la cessione agli americani di General Electric – avrebbe creato nel 1964 una frattura emotiva e strategica, ponendo un prima e un dopo nella storia industriale italiana.

Una diversificazione lungimirante, impostata negli anni Cinquanta. Ma non semplice da accettare, in un corpo produttivo votato alla meccanica. «La maggioranza dei dirigenti – spiega Gianluigi Gabetti, in Olivetti dal 1959 al 1971 e oggi presidente onorario di Exor – apparteneva alla grande tradizione dell'azienda di Ivrea: meccanica fin dall'epoca del fondatore Camillo e, in seguito, elettromeccanica. Invece, sentiva come qualcosa di estraneo e di scarsamente controllabile l'elettronica, per la quale servivano anche ingenti investimenti». Sul fatturato complessivo l'elettronica non incideva per più di tre o quattro punti percentuali e sul personale, per usare una stima in eccesso, non superava il 10 per cento. «In realtà – precisa Piol – prima e dopo la scomparsa di Adriano, non è che ci fosse una vera e propria contrapposizione.

I due binari correvano paralleli. A Ivrea la meccanica e altrove l'elettronica: negli Stati Uniti a New Canaan, nel Connecticut e, in Italia, a Barbaricina e a Borgolombardo. Si trattava di due culture industriali distinte e di fatto diverse». Una divaricazione che si sarebbe espressa anche negli anni successivi, a cessione della grande elettronica avvenuta, quando non più di dieci persone, guidate da Piergiorgio Perotto e ostacolate dalla gerarchia aziendale, inventarono la Programma 101, il primo computer da tavolo. «Di fatto una occasione mancata – continua Piol – anche per altre due ragioni. La debolezza della famiglia che, ormai priva del controllo proprietario, esprimeva ai vertici ancora Roberto, senza sostenerlo unitariamente nelle sue vedute. Poi, la carenza nella pianificazione e nel controllo, la vera debolezza storica della Olivetti e di tanta parte del capitalismo italiano: ancora alla fine degli anni Sessanta non avevamo budget né piani formalizzati».

Tuttavia, al di là dell'inatteso sviluppo della piccola elettronica, nel destino dell'azienda, molto era già stato fatto con la vendita dei grandi calcolatori, tassello insostituibile nella mitologia negativa del ritardo italiano. Riflette il sociologo Luciano Gallino, arrivato nel 1955 con la moglie Tilde Giani a Ivrea, dove sarebbero nati i loro figli: "Il nostro sistema ha pagato cara quella decisione. La fine dell'Italia industriale inizia anche in quel momento. La finanza e la politica non capirono la centralità strategica delle nuove tecnologie". Senza soffermarsi sulla portata storica di questa cesura, dice Gianluigi Gabetti: "Non ritengo che quell'operazione fosse necessaria, però temo che fosse diventata inevitabile. Non fu uno scippo.

In realtà, Enrico Cuccia diede la possibilità di spiegare le due opzioni: l'America e l'elettronica". Gabetti, uno dei sette dirigenti ad accompagnare Adriano per trattare l'acquisizione di Underwood, racconta come le cose si complicarono: "Per me, che lavoravo in America, in Mediobanca fu più facile proporre una riorganizzazione commerciale della Underwood, eliminando le costosissime filiali e ricorrendo a una rete, più leggera, di agenti. Più difficile la posizione di Roberto Olivetti, che dovette descrivere come avrebbe risanato l'elettronica. Si battè come potè, ma uscì deluso dall'incontro dicendo che non era riuscito a spiegarsi bene».

I padri e i figli. La famiglia. «C'era una lotta fratricida al suo interno – nota il sociologo Franco Ferrarotti, insieme a Geno Pampaloni e a Renzo Zorzi l'uomo più vicino ad Adriano nel movimento di Comunità – perché le strutture di Comunità, come i settantadue centri culturali, costavano. I familiari temevano per i dividendi». Dopo il fallimento delle elezioni del 1958, i riti di degradazione furono sottili ma umilianti. «Non soltanto, per un breve periodo, ad Adriano tolsero la carica di amministratore delegato, ma nell'ufficio di Roma che dava su Piazza di Spagna, gli levarono l'ufficio sull'attico e lo collocarono al secondo piano», dice Ferrarotti. Che continua: «In fondo, è un caso esemplare delle tare del nostro capitalismo dinastico, che allora era prevalente». Gianluigi Gabetti è d'accordo: «Adriano Olivetti fu vittima di una assenza di governance: non erano chiari i ruoli della famiglia azionista e del management». L'assenza di governance si perpetuò anche dopo la sua morte, quando i diversi rami degli Olivetti fecero a gara per avere più azioni degli altri, indebitandosi e creando le condizioni che alla fine li avrebbero costretti a rivolgersi al giurista Bruno Visentini per la costituzione del cosiddetto "gruppo di intervento" coordinato da Mediobanca.

Adriano e gli altri. Il fascino esercitato sui collaboratori, dagli operai delle presse agli intellettuali più sofisticati, era inversamente proporzionale al senso di distanza provato dai membri dell'establishment. «Un giorno – ricorda Ferrarotti – Amintore Fanfani ci chiamò i topi roditori della democrazia». Una ostilità condivisa dagli industriali. «L'anomalia era troppo forte – dice Colombo – il presidente della Confindustria di allora, Angelo Costa, non poteva sopportare che Adriano imputasse pubblicamente agli imprenditori di perseguire "la fallace e limitata logica del massimo profitto". Forse non piaceva un uomo che si alzava alle quattro del mattino, ti incontrava nel suo studio alle sei e che, alla domanda su cosa facesse ogni giorno fra le quattro e le sei, ti rispondeva "io progetto"».

 

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