Lo spiega il capitolo dedicato alle grandi e medie imprese industriali del volume "Libertà e benessere: l'Italia al futuro" alla base della due giorni di Confindustria in programma da oggi a Parma. Il lavoro di Fulvio Coltorti, responsabile area studi Mediobanca e professore di economia industriale dell'Università di Firenze, è una lunga cavalcata nella storia dell'industria italiana, dalla formazione dei primi grandi soggetti pubblici, ai processi di privatizzazione, al declino dei gruppi storici e all'affermazione degli ultimi modelli di capitalismo. Il terzo, ancorato al territorio con la specificità dei distretti e il prevalere della piccola dimensione, il quarto, che ha scoperto la vitalità della media impresa trasformando ed evolvendo la particolarità distrettuale.
Le medie imprese industriali (da 50 a 499 dipendenti, fatturato tra 13 e 290 milioni) sono solo 4.500, poco radicate al Centro-Sud, e questo è il primo vero limite. Ma rappresentano una realtà patrimonialmente solida e ben piantata di fronte al forte vento della crisi. I fondamentali dimostrano il salto di qualità compiuto rispetto alla grande industria. Il «quarto capitalismo» pesa per il 29% del valore aggiunto della manifattura italiana: negli anni più recenti – si legge nel lavoro di Coltorti – questa fascia di imprese ha superato i gruppi maggiori nei tassi di sviluppo del fatturato (1,5 punti annui nel periodo 1998-2007), delle esportazioni (1,1 punti), nella creazione di nuovi occupati (+10% contro una flessione di oltre il 22%). I margini di profitto operativo segnano un differenziale di 2,6 punti al 2007, ma soprattutto la struttura finanziaria presenta una più elevata dotazione patrimoniale. La differenza è chiara: mentre nei gruppi maggiori una quota consistente degli attivi immobilizzati deve essere coperta da debiti per insufficienza del patrimonio, le medie imprese industriali possono godere di un autofinanziamento pressoché totale. Un aspetto che già Enrico Cuccia, nel 1978, metteva in evidenza immaginando che cosa sarebbe nato da quello che oggi chiamiamo quarto capitalismo: «Una crescita fondata almeno in parte sull'autofinanziamento e non soltanto sui debiti, capacità produttive più aderenti alle effettive dimensioni dei mercati, e soprattutto minori interferenze politiche nella vita economica del paese».
È il salto logico che si è iniziato a delineare dalla seconda metà degli anni 70, con l'incipiente declino delle grandi imprese accompagnato da una maggiore rilevanza del modello ad elevata «distrettualizzazione». La definizione è di Andrea Colli (Università Bocconi), che ha curato il capitolo del volume dedicato alla "Piccola impresa nello sviluppo economico italiano". In fin dei conti, il posizionamento verso la piccola dimensione è una caratteristica strutturale confermata anche dalle ultime statistiche europee: l'Italia è il paese che conta il maggior numero di imprese (3,8 milioni) con una media di addetto per azienda del 3,9 contro il dato Ue pari a 6,4. Una presenza di lungo periodo, consolidatasi con il modello dei distretti, con il merito, secondo Colli, di contribuire tuttora «a mantenere un livello stabile di sviluppo e benessere nella maggior parte del paese». E i segnali, stando almeno ai sondaggi sulle aspettative dei piccoli imprenditori, non sono di resa: secondo l'ultima indagine Unioncamere il 30% delle pmi manifatturiere si attende nel 2010 un aumento del fatturato aziendale, e una quota analoga confida nell'incremento dell'export.
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