Google non molla e sfida Pechino. Ieri la società californiana ha annunciato che non si ritirerà dalla Cina, ma aggirerà i controlli governativi convogliando il traffico del suo motore di ricerca google.cn sul suo sito di Hong Kong google.com.hk. A partire da ieri pomeriggio il messaggio «Benvenuti nella nuova dimora di Google» è apparso infatti sul sito cinese del colosso della Silicon Valley, una aperta provocazione che accresce le tensioni tra il portabandiera della libertà su internet e il governo centrale della repubblica Popolare.

L'annuncio è arrivato di soppiatto verso mezzogiorno ora californiana, un messaggio sul blog aziendale di Google anzichè un comunicato stampa ufficiale. «Il governo cinese ci ha fatto capire chiaramente durante una serie di incontri che l'autocensura da parte nostra non è ammissibile e non è negoziabile», legge il blog firmato dal legale della società David Drummond. «Crediamo che l'iniziativa di offrire un motore di ricerca incensurato dal portale di Hong Kong sia una soluzione di buon senso, capace di dare accesso all'informazione al popolo cinese, e in modo perfettamente legale».

Legale o meno, Google è ben consapevole che Pechino potrebbe reagire immediatamente, bloccare l'accesso al sito di Hong Kong e in rappresaglia contro la sfida americana impedire alla società di mantenere una presenza nel paese. «È troppo presto per anticipare il destino dei nostri 600 dipendenti in Cina», dice infatti il blog riferendosi al personale negli uffici di ricerca e di vendita di pubblicità in Cina.

La palla è ora in campo cinese, dove la crescente tensione con gli Usa si respira anche solo dalla quantità di aziende americane che si sentono "unwelcome" sul territorio, cioè il 38% dei membri dell'American Chamber of Commerce in China (nell'ultimo trimestre si era a quota 26%). Una risposta di Pechino potrebbe indicare in che direzione si vuole dirigere un paese in cui gli interessi economici, in questo caso i grandi gruppi pubblicitari cinesi per i quali il website domestico di Google rappresenta una potente cassa di risonanza, si scontrano di frequente con i controlli di un governo autoritario.

L"affaire Google" era scoppiato ai primi di gennaio quando il gruppo statunitense aveva denunciato una serie di attacchi informatici contro le caselle di posta elettronica di suoi numerosi clienti cinesi, tra cui alcuni dissidenti politici. Irritato per l'incursione informatica, che secondo Google sarebbe stata perpetrata da hacker professionali, il portale Usa aveva reagito lanciando una sfida aperta a Pechino: la rimozione dei filtri imposti dalla censura al suo sito cinese, o l'abbandono del paese. La nomenklatura, ossessionata com'è dal controllo dell'informazione, ha risposto picche invitando così Google ad accomodarsi alla porta.

La stampa cinese ha ripreso le critiche del governo al portale americano e ha definito "infondate" le accuse alle politiche liberticide promosse da Pechino contro l'informazione in rete. «Google si è politicizzata e pensa di poter esportare i suoi valori, le sue idee, la sua cultura in Cina», ha tuonato l'agenzia di stampa governativa, Xinhua. «È inammissibile che la società Usa si ostini a imporre il suo punto di vista ai regolamenti internet cinesi, che sono stati elaborati secondo i valori, le idee e la cultura della nostra nazione».

Solo il premier cinese Wen Jiabao ha cercato di stemperare i toni in questi ultimi due mesi di escalation delle tensioni tra Pechino e Washington. «Noi non vogliamo guerre commerciali o valutarie. Il prossimo incontro bilaterale sarà molto importante per appianare le questioni aperte», ha detto ieri, riferendosi alla riunione del Dialogo Strategico ed Economico Cina-Usa in programma a maggio.


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