Presidente, che cosa non la convince in questa sentenza?
Il giudice basa la sentenza sull'articolo 13 del Codice, il quale però contiene obblighi diversi da quelli che, secondo la sentenza, Google avrebbe violato. L'articolo dice che il titolare del servizio (Google, in questo caso) ha il dovere di informare sul trattamento dei dati dell'interessato (ossia dell'utente che invia il video). Deve dire cioè come usare i dati del proprio utente. La sentenza invece condanna Google per non aver informato bene il proprio utente sugli obblighi di quest'ultimo nei confronti dei dati personali di terzi. Cioè degli altri soggetti ripresi nel video.
In altre parole, secondo il giudice, Google avrebbe dovuto dire ai propri utenti: prima di pubblicare questo video, state attenti a non violare la privacy delle persone riprese, chiedete il loro consenso. Ma le norme sulla privacy non obbligano Google a fare così?
No, quest'obbligo non rientra nell'articolo 13 e non c'è nell'attuale diritto. Per questo motivo credo che la sentenza non reggerà all'appello. Tuttavia, non ha solo ombre ma anche luci.
Quali sono gli aspetti positivi della sentenza?
Da una parte è bene che esoneri i fornitori dall'obbligo di controllare i contenuti pubblicati dagli utenti. Non è vero quindi che questa sentenza sia una minaccia per libertà di internet. Dall'altra, la tesi che afferma è audace ma interessante: che i fornitori come Google dovrebbero informare meglio gli utenti per impedire che questi ultimi compiano illeciti. Ed è bene anche che questi colossi del web possano pensare di incorrere in guai giudiziari per aver dato informative troppo lacunose. Troppo frequentemente infatti vediamo che i grandi fornitori, in prima linea Google, sono poco attenti al problema. Dovrebbero agire in modo più incisivo per diminuire il più possibile il rischio di trattamento illeciti.
In che modo dovrebbero agire?
In due modi: sia informando meglio gli utenti sia adottando loro stessi precauzioni maggiori contro il rischio di violazione della privacy. Per esempio, per il servizio Street View, Google non ha ancora soddisfatto le richieste di molti Garanti della privacy nazionali. Chiedono che Google avvisi, con suoni o segnali luminosi, quando passa l'auto che fotografa le strade delle città, che poi finiscono sulle mappe. Così i passanti possono evitare di essere ripresi, se non lo desiderano. Altri esempi di servizi Google controversi sono Dashboard, Latitude e Buzz. Latitude formalmente rispetta le norme ma nei fatti lo fa in modo insufficiente a impedire trattamenti illeciti. È vero infatti che questo software, sul telefonino, mi chiede il permesso prima di attivare la localizzazione gps. Ma non si preoccupa di accertarsi che a dare il permesso sia il proprietario del cellulare. Sono esempi che dimostrano l'esigenza di ulteriori leggi e obblighi, sui fornitori di servizi tecnologici.
E come si potrà arrivare a nuove leggi a tutela degli utenti?
Non attraverso sentenze né per via di regolamenti emanati da un singolo Paese. Servono accordi globali, perché globale è il fenomeno e multinazionali sono i protagonisti. E dagli accordi arrivare a nuove norme, con sanzioni onerose per chi non le rispetta. La vicenda italiana deve dare quindi spunto per un dibattito nazionale. Ce ne sono già le condizioni: il 20 aprile ci sarà una presa di posizione ufficiale di tutte le autorità garanti della privacy europee, su Google Buzz.







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