Siamo onesti, in questo lunedì ci speravamo parecchio. Takeshi Kitano e Alejandro Gonzales Inarritu sembravano due puntate sicure. Il primo, al suo ritorno in Costa Azzurra e tra i candidati alla Palma d'Oro fin dalla presentazione del programma, il secondo un giovane cineasta che già, però, fa scuola. E invece, forse, abbiamo trovato "solo" il miglior attore del festival, l'uomo che potrebbe succedere a Benicio Del Toro (quest'anno in giuria) e Cristoph Waltz nell'albo d'oro dei migliori interpreti maschili del festival di Cannes: Javier Bardem.

Biutiful, infatti, si regge soprattutto su sprazzi di regia meravigliosi, le consuete invenzioni del regista messicano non mancano in quasi 138 minuti di film, e sulle spalle larghe di questo angelo dalla faccia sporca e storta. Bardem, che ha conquistato il cuore tumultuoso di Penelope Cruz (molti scommettono su un figlio molto presto), pubblico e critici, viene messo al centro di un dramma individuale e familiare che farebbe tremare i polsi al più navigato dei narratori e al migliore degli attori. Siamo in una Barcellona sconosciuta, periferica e triste, quella in cui abitano gli immigrati clandestini africani e asiatici.

Un uomo, una sorta di intermediario tra i padroni criminali e gli sfruttati e diseredati chiusi in uno stanzone e ogni giorno portati a lavorare nei cantieri o in negozi "amici", ci fa da Caronte in questo inferno metropolitano. È' Uxbal, orfano di padre prima della nascita (dovette scappare in Messico per fuggire a Franco, lo fulminò una polmonite) e segnato da una vita tutta sbagliata, scopre di avere ancora poco tempo da vivere. E decide di chiudere i conti con la vita non lasciando nulla di insoluto. Ma non ne è capace, perché la vita lo ha malmenato e lui ha cercato di ingannarla con il suo lavoro border line e il suo ménage familiare improbabile. È' sempre diviso tra un egoismo che lo spinge alla sopravvivenza e un altruismo a cui si costringe perché troppo sensibile per ignorare le brutture che lo circondano. Sfortunato, poi, lo è parecchio: non solo condannato a morire giovane, ma con una moglie bipolare che ama e che, però, lo distrugge a poco a poco, in un rapporto reciprocamente masochista di cui i loro figli sono vittime innocenti. È evidente fin da questo accenno di trama - c'è molto altro - quanta carne al fuoco abbiam messo Inarritu e perché questo incrocio catalano tra Babel e 21 grammi, sia un film intenso, profondo ma comunque poco riuscito.

Troppo lungo e spesso aggrovigliato su se stesso, esce fuori dalle impasse proprio con il carisma e il fascino di Javier Bardem, che si espone a ogni sfida, anche fisica, che il ruolo comporta. Inarritu, di contro, non annoia mai ma spesso sbaglia scelte visive e narrative, l'opera sconta la sua costante voglia di stupire e l'assenza dello sceneggiatore storico del regista, Guillermo Arriaga, "divorzio" che, ormai è evidente, ha fatto male a entrambi. La loro coppia, infatti, era quel classico sodalizio in cui il risultato era ben al di sopra della somma degli addendi. Separati, entrambi sembrano strozzati da un "vorrei ma non posso" artistico (e viceversa) che crea molte aspettative senza soddisfarle a pieno. Armando Bo, Nicolas Giacobone e lo stesso Inarritu non trovano, nella scrittura, la fluidità e la potenza necessaria a una storia del genere. In ogni caso, nel panorama un po' avvilito e avvilente di questa 63esima edizione del Festival di Cannes, rappresenta un timido raggio di sole, anche grazie alla superba fotografia di Rodrigo Prieto. Un raggio di sole che si infila nelle nuvole della selezione non troppo felice di quest'anno e anche in quelle di un film che va metabolizzato e sicuramente tagliato e rimontato.

Niente da fare, neanche con un ottimo maquillage, invece, per Takeshi Kitano. Ieri la stampa si è messa in fila un'ora prima per vederlo, le attese erano altissime. E così la delusione è stata davvero cocente: il regista giapponese sembra aver perso le sue doti migliori, dalla tensione narrativa e la creatività dei primi tempi alla dissacrante versione degli ultimi anni, quella che lo ha portato ad essere un vate dell'action farsesco e un alfiere di un cinema che, senza prendersi sul serio, sa divertire chi lo fa e chi lo guarda. Outrage poteva essere l'unione dei due Kitano, lo si capisce dall'immediata impostazione ironica, dalle tematiche (scontro di potere nella yakuza), persino dai titoli di testa, decisamente audaci e vintage. Ma è solo una pallidissima copia del cineasta che conosciamo: per 110 minuti la noia regna sovrana, l'opera è un puzzle di poche idee e pure confuse, la lotta di potere è un continuo batti e ribatti senz'anima.

Certo, il Kitano che conosciamo si incontra a volte, si pensi all'ambasciatore del finto stato africano che viene ricattato o il boss a cui viene devastata la bocca, scena sanguinosa seguita subito da altre molto divertenti. Ma sono davvero momenti estemporanei di un lungometraggio che non decolla mai e che, anzi, precipita nella sua autoreferenzialità. Kitano sbaglia due volte, come regista e persino come montatore, il suo cinema qui sembra più sciatto e meno curato del solito, il suo essere sopra le righe è fatto di tentativi stanchi e scontati di colpire lo spettatore. Che in effetti rimane colpito: alcuni dal sonno, altri da un desiderio di fuga che a metà film aveva già portato fuori dalla sala almeno un terzo dei giornalisti, sempre più provati da un festival sotto tono (non a caso si affollano le sale delle selezioni parallele: la Semaine fa molto parlare di sé per Rubber e Armadillo, la Quinzaine s'è innamorata dell'orchestra africana di Benda Bilili! e del nostro Michelangelo Frammartino e il suo Le quattro volte).

Le cartucce stanno per finire e Cannes, per ora, sembra lontana dallo sparare quella giusta. Oggi toccherà a Godard (Film Socialisme) e Kiarostami (Copie conforme), ma una speranza tutta italiana sta crescendo. La nostra vita e Daniele Luchetti, secondo molti giornalisti, sono sempre più autorizzati a sognare. Mercoledì sarà il giorno della verità.

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