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Una crisi nel segno del rinvio. Un mese per la legge di stabilità è troppo nell'era della velocità

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Questo articolo è stato pubblicato il 18 novembre 2010 alle ore 08:08.
L'ultima modifica è del 18 novembre 2010 alle ore 09:01.

La domanda che Marchionne ci ha fatto rimbalzare addosso da Los Angeles («Ma la crisi di governo c'è o non c'è?») riecheggia l'esclamazione del bambino nella favola di Andersen: «Il re è nudo!». Sì, siamo ormai nudi davanti agli occhi stupefatti del mondo, e a propria volta questa crisi è come l'abito invisibile del re: riempie da mesi i nostri conversari, ma nessun sarto le ha ancora dato forma. Succederà, forse, il 14 dicembre, sempre che il rinvio non venga rinviato un'altra volta.

Diceva l'epigrammista Rivarol: «Non aver fatto nulla è un terribile vantaggio, ma non bisogna abusarne». In Italia viceversa celebriamo ogni anno Va-Lentino, giornata della lentezza (cade il 19 febbraio, e chissà se a quella data la crisi di governo avrà trovato una sua definizione). Ma il campione dell'immobilismo non è una persona fisica: è una persona giuridica, è lo stato, che d'altronde fin dal suo stesso nome si contrappone al moto. E infatti la nostra giustizia civile è la più lenta d'Europa, mentre la macchina burocratica - con i suoi tempi morti - costa alle imprese 13,7 miliardi l'anno. Nel frattempo oltreconfine l'economia corre, la ricerca scientifica avanza a velocità vertiginose, la politica disegna scenari continuamente inediti.

C'è una giustificazione per marciare a passo di lumaca anche in questa crisi di governo permanente? C'è un motivo per tirarla alle calende greche? Sì che c'è, risponde la politica: si chiama legge di Stabilità. Prima di dar fuoco alle polveri dobbiamo battezzarla in parlamento, altrimenti verremo castigati dai mercati. Ma in primo luogo con le nuove procedure (più agili rispetto alla vecchia Finanziaria) sarebbero bastate un paio di settimane, invece d'un mese tondo tondo. In secondo luogo l'incertezza prolungata è la vera palla al piede della nostra economia: senza un orizzonte chiaro, ogni investimento diventa una giocata ai dadi. E in terzo luogo non è affatto sicuro che l'apertura formale della crisi ci avrebbe condannato all'esercizio provvisorio del bilancio.

Durante la seconda metà del Novecento le crisi di governo cadevano una volta l'anno, puntuali come il Natale; ma non paralizzavano l'azione dello stato, tant'è che Giulio Andreotti ci scrisse sopra un libro dal titolo eloquente (Governare con la crisi). E infatti abbiamo registrato casi d'esercizio provvisorio senza crisi di governo (per esempio nel 1985, governo Craxi), crisi divampate durante l'esercizio provvisorio (nel 1988, governo Goria), crisi aperte e chiuse in piena sessione di bilancio (nel 1998, con la staffetta tra Prodi e D'Alema). Poi, certo, meglio evitare il rischio d'incidenti nel bel mezzo della manovra finanziaria, ammesso che tale rischio sia azzerato dal rinvio della mozione di sfiducia. Ma il rinvio, di per sé, non basta a disintossicare i rapporti fra i partiti: al contrario, può inocularvi altre tossine.

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C'è allora un dato che si staglia in primo piano durante questa interminabile agonia del governo Berlusconi: mentre la Seconda Repubblica probabilmente esala i suoi ultimi respiri, mentre la Terza Repubblica rimane ancora una chimera, la politica ha riesumato i riti - rassicuranti e collaudati - della Prima Repubblica. La differenza è che a quell'epoca la sostanza della crisi veniva avvolta da una forma, c'erano dimissioni consegnate al Quirinale, consultazioni, incarichi, dibattiti nelle assemblee legislative; adesso la crisi c'è però non si dichiara, evidentemente la forma è caduta ormai in disgrazia.

Ma non è in disgrazia la santificazione del rinvio, che celebriamo per esempio attraverso il decreto milleproroghe, sfornato ogni dicembre dai governi di destra e di sinistra. Non è in disgrazia la baruffa permanente fra i partiti, che costringe il capo dello stato a districare matasse quasi sempre aggrovigliate. Così, se la crisi del governo Fanfani (nel 1954) venne risolta nel giro di ventiquattr'ore, di giorni ne sono passati 121 dopo la caduta del primo governo Andreotti (nel 1972), 91 dopo Forlani (nel 1987), 125 dopo Dini (nel 1996). Ma coraggio, dopotutto qualunque record si può sempre superare.

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