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Il Piano per il Sud nasce zoppo. Dubbi sull'impianto istituzionale e sulle risorse finanziarie

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Questo articolo è stato pubblicato il 27 novembre 2010 alle ore 09:33.

Il Piano nazionale per il Sud è stato approvato dal Consiglio dei ministri ed è una buona notizia che arrivi finalmente al traguardo. Che cosa cambia ora? È una svolta? Quali possibilità ci sono che il principale nodo irrisolto dello sviluppo del paese, a 150 anni dall'Unità, venga infine sciolto positivamente?

Chiediamoci anzitutto che cos'è il Piano per il Sud. È un documento programmatico in cui si fissano alcuni obiettivi sui quali convogliare le risorse europee e quelle nazionali. Due le novità rilevanti e positive. Anzitutto, vi è la scelta di concentrare gli interventi su alcune priorità in termini di beni e servizi collettivi: grandi infrastrutture, istruzione, ricerca e innovazione. Ad esse se ne accompagnano altre, volte a creare un ambiente più favorevole per lo sviluppo economico e sociale: sicurezza e legalità, giustizia, efficienza della pubblica amministrazione, credito e sostegno alle imprese e al lavoro. La seconda novità è costituita dal tentativo di perseguire tali obiettivi con strumenti che anticipano la riforma in discussione dei fondi regionali dell'Unione Europea: ricorso più stringente a valutazione preventiva e successiva degli interventi; definizione con tutte le amministrazioni coinvolte nella realizzazione – anche attraverso "contratti istituzionali" - degli impegni rispettivi; condizionalità nell'uso dei fondi legata al raggiungimento di obiettivi predeterminati; individuazione di meccanismi sostitutivi fino alla possibilità di "commissariamento" in caso di inadempienza.

La specificazione degli obiettivi prioritari può essere considerata soddisfacente? Ci sono luci e ombre. Un solo esempio: nel caso della sicurezza bisognerebbe non solo spendere molto di più, ma soprattutto concentrare maggiormente l'intervento nella formazione di un'intelligence specializzata, a livello di forze dell'ordine e della magistratura, per far fronte alla vera e propria emergenza costituita dal diffondersi di forme di compenetrazione tra mafie ed economie locali. Lo stesso obiettivo della realizzazione di grandi infrastrutture è a rischio se non si combina con un più efficace monitoraggio del sistema degli appalti e delle attività economiche in genere. Naturalmente, molte linee d'intervento sono legate alla necessità di concertare con le regioni i progetti operativi e di valutarli. Da questo punto di vista si è però accumulato un ritardo che stride con gli effetti della crisi economica e con le sue ripercussioni ancora più gravi nelle aree deboli del paese. La programmazione precedente delle risorse europee e nazionali lasciava a desiderare, e i piani predisposti dalle regioni erano spesso dispersivi e insoddisfacenti. Il governo è però in carica dal maggio 2008 e in questo lasso di tempo non si sono fatti passi avanti significativi con le regioni. Intanto, a metà del ciclo di programmazione 2007/2013, gli impegni delle risorse comunitarie sono al 20% e i pagamenti al 9% - valori peraltro gravemente inferiori a quelli registrati nel ciclo precedente dopo lo stesso numero di anni. I rischi di disimpegno automatico, in base alla normativa comunitaria, sono elevatissimi.

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Che possibilità ci sono di colmare questi ritardi e imprimere una svolta? Occorre essere ben consapevoli che sul processo finalmente avviato ieri gravano due incognite rilevanti. La prima è costituita dall'impianto istituzionale. Uno schema di decreto legislativo, legato alla riforma federalista, è stato approvato contestualmente al Piano. Rafforza il ruolo del ministro delegato per la politica di coesione, e pone le basi per la messa in opera degli strumenti nuovi di coordinamento, concentrazione, valutazione, determinazione stringente di tempi e procedure, responsabilizzazione delle diverse amministrazioni, fino a eventuali commissariamenti. Questo decreto deve ora passare dalle commissioni parlamentari e dalla conferenza unificata.

Sarà decisiva la posizione assunta dalle regioni e dalle forze politiche in parlamento. Una rapida assunzione di responsabilità condivisa da tutte le parti in causa sarebbe auspicabile, ma contrasta – evidentemente – con la situazione di crisi politica. La seconda incognita riguarda le basi finanziarie per dare gambe concrete al Piano. Le risorse previste non sono nuove, fanno parte di quelle già da tempo allocate insieme ai fondi comunitari. Procedere alla realizzazione del Piano richiede una rinegoziazione dei fondi comunitari (in parte non spesi nel ciclo precedente e per la maggior parte ancora non utilizzati nel ciclo in corso) e un'integrazione efficace con quel che è rimasto dei Fas (i fondi nazionali per la politica di sviluppo). Una delibera del Cipe, presa sempre ieri, avvia la riprogrammazione, ma questa procedura - che coinvolge la Ue e le regioni - richiede normalmente qualche mese. Che cosa accadrà se la situazione politica dovesse aggravarsi ulteriormente fino a una crisi di governo? Si riuscirà a trovare un'intesa efficace tra governo e regioni?

Ancora una volta i tempi della politica e delle istituzioni rischiano di non coincidere con quelli delle imprese, dei lavoratori, dei cittadini. Non ne paga le conseguenze solo il Sud ma tutto il paese.

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