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Il Rapporto Monti e l'Europa. Con troppe barriere non non c'è spazio per la crescita

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Questo articolo è stato pubblicato il 02 dicembre 2010 alle ore 08:08.
L'ultima modifica è del 02 dicembre 2010 alle ore 07:39.

Senza le riforme diciamo addio euro(di Giacomo Vaciago)

L'Europa rischia di diventare soltanto un distributore di paracaduti. Ne è passato di tempo da quando l'Agenda di Lisbona prometteva di renderci «la più competitiva economia basata sull'informazione» proprio entro il 2010. La prospettiva di trovare nell'Unione Europea solo un buon gestore della stagnazione non è esaltante.

È per questo che è probabile che nei prossimi mesi si riaccenda la discussione sul Rapporto Monti, pure passato quasi sotto silenzio al momento della sua pubblicazione. Il Rapporto contiene una serie di proposte molto dettagliate - dal mercato dei diritti d'autore a quello dell'energia - per fare ripartire il processo d'integrazione europea. Da questo punto di vista, avrebbe l'ambizione di essere un'agenda per la crescita. Esso si sviluppa, però, a partire da un ragionamento politico. Sia Mario Monti che Michel Barnier, che ha promosso il «Single Market Act», sembrano avere imparato fin troppo bene la lezione della Direttiva Bolkestein.

Quando Frits Bolkestein aveva provato a spingere nella direzione della liberalizzazione dei servizi, affermando il principio del paese d'origine (secondo il quale un prestatore di servizi che si sposta in un altro paese europeo deve rispettare la legge del proprio paese d'origine), sindacati e partiti di sinistra reagirono con decisione. Le strade di Bruxelles si riempirono di bandiere rosse. La direttiva servizi, in cui la Bolkestein era mutata perdendo per strada i suoi contenuti più controversi e significativi, andò via liscia ma senza conseguenze eclatanti.

Il lavoro di Monti è pervaso dall'idea che sia necessario proporre agli stati membri un baratto: una maggiore integrazione economica, in cambio di minore concorrenza fiscale. I monopolisti alzano sempre i prezzi: liberati dalle pressioni competitive, gli stati europei potrebbero perseguire la politica fiscale che pare loro più adeguata, senza temere un drenaggio di capitali a vantaggio dei paesi a più bassa tassazione. Se si vuole, è lo scambio che Francia e Germania hanno cercato di imporre all'Irlanda, nella prospettiva di condizionare il bail-out a un ritocco verso l'alto della tassa sulle società. Ma davvero un fisco più uniforme è nell'interesse dei cittadini europei e può stimolare un ritorno alla crescita economica?

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Il Rapporto riconosce che la concorrenza fiscale svolge «in qualche misura un'utile funzione spingendo i governi a tenere le spese sotto controllo». Ma sostiene che avrebbe effetti distorsivi, contribuendo a spostare il peso della fiscalità dal capitale al lavoro: in tutta evidenza, il primo si sposta più rapidamente del secondo.

È andata effettivamente così? Dalibor Rohac (Legatum Institute), in uno studio a più mani sul Rapporto Monti distribuito oggi dall'Istituto Bruno Leoni (sul sito www.brunoleoni.it si può scaricare il rapporto completo), dimostra che a dare torto all'ipotesi di Monti sono i fatti. «Se si esaminano i dati sulle aliquote fiscali implicite si riscontra che le tasse sul lavoro si sono ridotte a partire dalla fine degli anni 90, mentre quelle sul capitale sono drasticamente aumentate». Se pure ammettessimo che la concorrenza fiscale dovrebbe, in teoria, condurre a uno spostamento della tassazione verso i fattori di produzione immobili, nei paesi Ue questo spostamento è avvenuto in misura decisamente esigua.

L'armonizzazione fiscale disegna un'idea rinunciataria di Europa. Se il processo d'integrazione europeo ha un senso, dovrebbe essere proprio quello d'incentivare una maggiore mobilità di tutti i fattori produttivi. Ciò significa inevitabilmente tornare a Bolkestein, e prendere di petto le troppe rigidità che persistono nel settore dei servizi - che conta per circa il 70% degli occupati nei paesi dell'Europa a quindici.

Abbassare le barriere all'ingresso nelle professioni, integrare mercati che sono ancora squisitamente nazionali come quello della sanità: tutto questo può portare a creare ricchezza, nel momento in cui stimola una migliore allocazione dei fattori produttivi. La scelta è fra un'Europa che significa più tasse e un'Europa che può voler dire più ricchezza. Non sembra una scelta difficile.

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