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Questo articolo è stato pubblicato il 09 dicembre 2010 alle ore 09:05.
L'ultima modifica è del 09 dicembre 2010 alle ore 09:45.
Nessuno si era davvero illuso. È sempre stato evidente che, se non altro nel breve periodo, le politiche di austerità di Eurolandia avrebbero frenato la crescita. A meno di non adottare una radicale politica di concorrenza.
Il rigore chiede oggi un contrappeso: è un costo inevitabile - per evitare disastri peggiori come il default e magari la fuoriuscita dall'euro - e pesante, aggravato dal fatto che la politica monetaria non può ulteriormente tagliare i tassi per compensarne il peso e l'euro resta piuttosto forte. Crea una situazione tale da far sorgere continuamente un interrogativo: quando il troppo è troppo? O, per essere più precisi: c'è il necessario equilibrio tra le ragioni del rigore e quelle della crescita?
È vero che la teoria economica non aiuta molto a capire quali siano gli effetti della politica fiscale. Le ricerche sono relativamente poche, contraddittorie e persino controintuitive: non mancano - sono anzi numerosi - episodi di austerità associati a incrementi del Pil. Un effetto frenante, però, sembra ineludibile, se non compensato da altre misure. «Un riassunto dei modelli dell'Fmi mostra che un irrigidimento della politica fiscale di un punto di Pil riduce la domanda domestica di un punto percentuale il secondo anno; c'è però una compensazione data da un aumento delle esportazioni nette e l'effetto complessivo è quello di frenare il Pil di circa 0,5 punti», dice Gerard Minack di Morgan Stanley (che pure parla di un punto di riferimento autorevole, non di un'indicazione generalizzabile a tutti i casi).
Il rischio di strafare è quindi concreto. Anche gli investitori, beneficiari immediati delle politiche di austerità, ne sono consapevoli e le perplessità emergono prepotenti. «La politica fiscale deve ora navigare tra la Scilla dello stress sui titoli sovrani e la Cariddi di un rigore prematuro», dice Minack, in una nota intitolata non a caso «Un guaio se lo fate - o non lo fate».
L'Irlanda appare subito come un caso emblematico. Perché la crisi fiscale qui non è nata da politiche populiste o da errati stimoli alla crescita, ma da interventi per dare tutela e garanzia proprio alle banche. «L'austerità è andata troppo oltre?», si chiede, a proposito di Dublino, Vladimir Pillonca di Société Générale in una recente analisi. La sua paura è espressa con una "formula": «Troppa austerità = rischi di deflazione = rischi più alti di default e più stress per il settore bancario». In Irlanda il rischio passa attraverso un'ulteriore riduzione dei prezzi delle case - quella ricchezza delle famiglie di cui si parla molto, dimenticando che può cambiare valore anche bruscamente - che ridurrebbe sia le garanzie dei mutui bancari sia i consumi, in una nuova spirale deflazionistica che renderebbe davvero arduo ripagare i debiti.