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Questo articolo è stato pubblicato il 11 gennaio 2011 alle ore 09:39.
L'ultima modifica è del 11 gennaio 2011 alle ore 06:38.

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L'autogol di Internet AgendaL'autogol di Internet Agenda

Esattamente nel gennaio di un anno fa, il segretario di Stato Hillary Clinton salì sul palco del Newseum di Washington per reclamizzare un'idea alla quale il suo dipartimento si era molto appassionato: la capacità di Internet di diffondere libertà e democrazia. «Vogliamo mettere questo strumento nelle mani di chi l'adopererà per promuovere la democrazia e i diritti umani», disse alla folla degli astanti, formata in parti pressoché uguali da abbottonate personalità della Beltway e rappresentanti della Silicon Valley.

Si chiama Internet Freedom Agenda: incarna il concetto secondo cui la tecnologia può portare a buoni risultati nell'apertura di quel mondo nel quale tutti i tentativi offline si sono rivelati finora vani. Che l'amministrazione Obama avrebbe abbracciato una simile idea non deve stupire: dopotutto, il presidente Usa è stato eletto in buona parte grazie all'impegno profuso nell'organizzazione online e alla forza trascinante e coinvolgente con la quale grazie a Internet ha proceduto alla raccolta di fondi.
A distanza di un anno, tuttavia, l'Internet Freedom Agenda può vantare davvero pochi successi di rilievo. Semmai, assomiglia sempre più alla Freedom Agenda a bassa tecnologia di George W. Bush, al suo irrealizzato impulso durante il suo secondo mandato a innescare un processo di democratizzazione nel Grande Medio Oriente. L'impegno profuso dalla Clinton ha sicuramente dato vita a titoli esaltanti sui giornali come una vera trovata pubblicitaria, ma non a molto di più. L'unica vera mossa di successo del dipartimento di Stato è stata quella di allocare fondi per 1,5 milioni di dollari a esperti di tecnologia aderenti alla setta Falun Gong e residenti negli Stati Uniti per contribuire ad aggirare la censura, decisione che invece ha irritato profondamente i numerosi adepti di questa setta presenti a Washington, che inizialmente avevano chiesto quattro milioni di dollari.

Per altro, l'entusiasmo del dipartimento di Stato per la tecnologia supera di gran lunga le conoscenze che ha di essa. All'inizio dello scorso anno, nel tentativo di aiutare i dissidenti iraniani, il governo americano ha concesso una licenza di esportazione alla società che sta dietro Haystack, una tecnologia che consente la tutela della privacy e di aggirare la censura, pubblicizzata nei media come uno strumento rivoluzionario per assicurare la libertà di Internet. Al contrario, Haystack si è rivelato programmato in modo mediocre, poco sicuro nei primi esperimenti in Iran, e ha esposto a grave rischio i suoi utenti. È stato chiuso a settembre in tutta fretta.
Dall'ottobre 2009 il dipartimento di Stato è impegnato a lanciare una linea di messaggistica anonima che aiuti i messicani che fanno rispettare la legge a scambiarsi informazioni sui cartelli della droga. Al pari di Haystack, anche questa tecnologia ha attirato il plauso generale, per poi soccombere davanti agli inevitabili ritardi che si vengono a creare in presenza di un problema del tutto prevedibile: garantire l'anonimato di un sms.
I guai dell'Internet Freedom Agenda vanno ben oltre il semplice fallimento di questi progetti. Gli sforzi online del dipartimento di Stato miranti alla democratizzazione sono falliti perché colpiti dalla stessa tipologia di problemi che ha assillato la Freedom Agenda di Bush. Schierandosi al fianco di società e organizzazioni presenti su Internet, i diplomatici digitali di Hillary Clinton hanno convinto i loro nemici all'estero che la libertà di Internet è un cavallo di Troia in più dell'imperialismo americano.

Hillary ha commesso un errore sin dall'inizio, violando la prima regola della promozione della libertà di Internet: «Non parlare di promuovere la libertà di Internet». Il suo discorso al Newseum conteneva numerose allusioni al Muro di Berlino, sperticate lodi per le rivoluzioni di Twitter. Alle orecchie dei governi già molto preoccupati per le loro popolazioni sempre più interconnesse e cablate, ciò è suonato più «libertà tramite Internet» che «libertà di Internet». Non un invito alla libertà d'espressione online, dunque, quanto un tentativo di rovesciarli e destituirli tramite il cyberspazio.
Dalla prima Freedom Agenda si sarebbero dovuti trarre i debiti insegnamenti. Dopo che dal 2003 al 2005 le «rivoluzioni colorate» innescate dai movimenti giovanili si sono allargate dalla Georgia all'Ucraina al Kirghizistan, Bush si vantò platealmente del proprio appoggio a questi eventi e s'impegnò a globalizzare questa nuova ondata filo-democratica. Il contraccolpo fu istantaneo. Paesi come la Russia, che in precedenza erano stati relativamente indifferenti a questo tipo di attivismo, furono presi dal panico, bloccarono i finanziamenti dall'estero alle associazioni della società civile e alle organizzazioni non governative e crearono movimenti giovanili filogovernativi. Il risultato fu una perdita secca per la democrazia e per la libertà in molti paesi.

Anche l'Internet Freedom Agenda ha avuto le sue ripercussioni, molto simili a quelle della Freedom Agenda. La situazione della libertà in rete in paesi come Cina, Iran e Russia era tutt'altro che ideale e perfetta prima dell'iniziativa di Hillary Clinton, ma quanto meno era un problema slegato dalle relazioni che quei paesi intrattenevano con gli Stati Uniti. Non si può certo affermare che Google, Facebook e Twitter fossero difensori imperturbabili della libertà d'espressione, ma erano nondimeno emissari - per quanto del tutto casuali - di una visione più aperta e democratica di Internet. I governi autoritari non li consideravano una minaccia, quanto luoghi virtuali nei quali i loro cittadini potevano eventualmente controllare la posta elettronica, postare aggiornamenti sugli eventi, condividere ricette per la pastasciutta. La maggior parte di quei governi - con la sola ovvia eccezione di Pechino - non si era premurata neppure di erigere limiti a Internet.

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