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Questo articolo è stato pubblicato il 08 febbraio 2011 alle ore 08:01.
L'ultima modifica è del 08 febbraio 2011 alle ore 06:39.

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È di questi giorni la notizia che, nel mese di dicembre, i consumi spagnoli sono crollati del 4,4% rispetto all'anno precedente. In effetti, chi avesse avuto la possibilità di recarsi a Madrid di recente sarebbe rimasto colpito dalla scarsa affluenza nei ristoranti, un tempo pieni di avventori mangerecci e ciarlieri, e dalla sequela di cantieri abbandonati lungo l'autostrada che porta all'aeroporto. Solo tre anni fa, ma sembra passato un secolo, il modello spagnolo pareva correre come una locomotiva e il governo italiano era incalzato dallo spettro del sorpasso.

In quei frangenti ci volle tutta la competenza di economista del presidente del Consiglio Romano Prodi per contenere il giubilo del suo pari grado José Luis Zapatero e per denunciare la fragilità di quel tipo di crescita fondato sull'attività edilizia e sull'indebitamento dei cittadini a forza di mutui e carte di credito revolving. I fatti gli hanno dato ragione.
Per capire il secondo tempo della "lezione spagnola", parafrasando il titolo in italiano di un fortunato libro del sociologo Victor Pérez Díaz del 1999, bisogna resistere alle sirene dell'ideologia e uscire dal respiro affannoso della polemica quotidiana tra destra e sinistra: la crisi ha colpito i socialisti in Spagna come i liberali in Irlanda; e ricette sulla carta diverse, che un tempo erano riuscite a garantire una fase di crescita economica in entrambi i paesi, si sono scontrate con il macigno della crisi che non conosce colore né bandiere.
Può aiutare a capire cosa sta accadendo ai cugini iberici la recente pubblicazione España en crisis. Sociedad, economía, instituciones, a cura di Álvaro Delgado-Gal, Victor Pérez Díaz, Luis M. Linde e Alfredo Pérez de Armiñán con un epilogo di José Angel Sánchez Asiaín (Colegio Libre de Eméritos, 2010). Questa raccolta di saggi ha il merito di riflettere sulla crisi spagnola, ponendo l'accento sulle carenze strutturali e le specificità nazionali da cui è scaturita rendendola più virulenta che altrove. Non solo dunque speculazione finanziaria, bolla edilizia e virus americano. Gli autori partono dalla consapevolezza che sia finito il ciclo virtuoso del vecchio modello di sviluppo iberico, il quale ha consentito per un ventennio alla Spagna di crescere più della media europea sul piano dell'occupazione, dell'aumento dei salari e del Pil. La rottura è avvenuta perché quell'espansione è stata finanziata, come avvenne negli anni Ottanta in Italia durante i governi guidati da Craxi, da un debito pubblico sempre più fuori controllo: ad esempio, il disavanzo con l'estero è passato dal 26% del 1997 al 167% del 2009.

Il primo problema, sul piano politico, è costituito dalla difficile presa d'atto della fine del periodo di transizione dal franchismo alla democrazia, una fase storica decisiva, caratterizzata dall'alternanza politica e dalla modernizzazione delle strutture produttive, già iniziata sotto la dittatura ma senza garantire libertà politiche. Sul piano economico l'altro problema è rappresentato dal costo del regime delle autonomie che ha fatto aumentare vertiginosamente la bilancia dei pagamenti. Una lezione che i sacerdoti nostrani dell'autonomismo duro e puro farebbero bene ad ascoltare con attenzione.
Sono in particolare due le specificità negative del modello economico iberico: la prima concerne uno sviluppo troppo incentrato sulla piccola e media impresa (il 94% delle aziende impiega fino a 10 lavoratori). La seconda è l'alto tasso di disoccupazione, in particolare giovanile (43,8% contro il 21% della media continentale). La quota di lavoro precario in Spagna raggiunge il 30%, con punte assai elevate tra i 15 e i 24 anni, e dunque la fase di formazione avviene in condizioni "usa e getta" che impediscono una vera e propria crescita professionale, la quale non corrisponde all'interesse del lavoratore, né a quello dell'imprenditore. Alla base c'è una crescente disfunzione del sistema formativo primario e secondario incapace di valorizzare il nesso tra investimenti, rinnovamento sociale e competitività.
Si parla della crisi spagnola e sembra di vedere riflessa nello specchio l'immagine dell'Italia, con una differenza però che riguarda il sistema istituzionale. L'impressione è che l'ordinamento spagnolo sia più moderno e funzionante di quello italiano, avviluppato intorno a una snervante dialettica tra populismo e delegittimazione della politica che non riesce a produrre buon governo. Al contrario, in Spagna si avverte una maggiore capacità di distinguere gli interessi del paese da quelli di una parte e quindi una capacità di coesione sociale più forte.
Un piccolo esempio riguarda le infrastrutture e i trasporti: nel fatidico dicembre 2010 è stata inaugurata la linea ad alta velocità Madrid-Valencia e tutti i giornali hanno riportato in prima pagina una foto emblematica che ritraeva il re di Spagna, il capo del governo e quello dell'opposizione intenti a festeggiare insieme un traguardo ambito che riguardava l'intera nazione, a prescindere dalle divisioni di partito. L'italiano in trasferta non ha potuto non guardare quell'immagine con una punta di invidia, avendo negli occhi il ricordo del proprio presidente del Consiglio, con tanto di cappello da ferroviere in testa, che inaugurava, da solo, nel marzo 2009 il Frecciarossa Milano-Roma. Non solo uno stile di governo diverso, ma una capacità di fare sistema che ci manca e certo aiuterebbe i talenti e la competitività dell'Italia.

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