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Questo articolo è stato pubblicato il 23 febbraio 2011 alle ore 08:48.
L'ultima modifica è del 23 febbraio 2011 alle ore 08:48.

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Che sia il diritto per una volta a creare costume sociale, e non a rincorrerlo, può essere speranza per il futuro. Certezza del presente è quella di giudici che si schierano, ancora una volta, dalla parte delle imprese pulite. Che non sono poche, anche in realtà difficili come alcune zone della Campania e della Sicilia. E proprio per sgominare un "patto di ferro" tra casalesi e Cosa nostra la Cassazione ha ulteriormente allargato il confine di una norma chiave della legge Rognoni-La Torre, quella a tutela della libertà del mercato. Anche quando già il parlare di mercato appare più auspicio che realtà, comunque fragile, da proteggere.

Per i giudici, contro l'imprenditore che ha accettato di legarsi alle cosche scatta la concorrenza illecita, anche se non c'è stata violenza oppure minaccia. Per compromettere le regole cardine dell'attività economica basta anche il solo profilarsi del metodo mafioso. Senza che l'associazione criminale debba mettere in atto azioni esemplari, se non in casi che la stessa magistratura definisce «estremi», per convincere chi si oppone.
Ciò che non si può accettare – dalla pronuncia della magistratura emerge forte e chiaro – è la rinuncia dello stato a stare al fianco dell'imprenditoria migliore del paese. Quella che accetta il rischio, ma che il rischio accettabile vorrebbe fosse solo quello d'impresa, quello che corre qualsiasi imprenditore, e non invece quello di avere a che fare con aziende che fanno da schermo a operazioni poco trasparenti o sono controllate da sodalizi criminali. E che sempre alterano i più elementari principi della libera concorrenza.
Felice il paese che non ha bisogno di eroi certo, mutuando Brecht. E magari neppure di sentenze esemplari. A volte però è anche con l'aiuto del bistrattato diritto e della sua applicazione che si può saldare quell'alleanza tra impresa e regole, tra i più veri presidi di legalità del territorio.

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