Storia dell'articolo
Chiudi
Questo articolo è stato pubblicato il 26 febbraio 2011 alle ore 10:13.
L'ultima modifica è del 26 febbraio 2011 alle ore 09:30.
Milleproroghe, zero Camere, un presidente. Dietro al terzo voto di fiducia imposto dal governo al Parlamento nell'arco d'una settimana (un record di cui non c'è da menar vanto), dietro l'ennesimo maxiemendamento votato dai deputati a denti stretti, si staglia l'azione solitaria d'un uomo che le nostre istituzioni hanno lasciato in solitudine: Giorgio Napolitano. Lui reagisce, richiama all'ordine i cantanti, e almeno in questo caso gli evita di prendere una stecca. Ma il coro rimane stonato, ed è ormai l'ora di dire basta, di trovare un rimedio permanente.
Sta di fatto che le nostre istituzioni parrebbero impegnate in una partita a rubamazzo, e che la partita dura da fin troppo tempo. Funziona così: il Parlamento ha smesso di legiferare, sicché legifera il governo per decreto. Ogni decreto viene presentato alla firma del capo dello Stato, che ne controlla i requisiti d'urgenza, la legittimità costituzionale, infine l'omogeneità dei contenuti, dato che una minestra di cavoli e carciofi ci resterebbe sullo stomaco. Dopo di che comincia il lavoro delle Camere, che hanno 60 giorni per convertire il decreto governativo in una legge. E in genere se li prendono tutti, come è avvenuto puntualmente anche in relazione al milleproroghe: 50 giorni soltanto per l'esame in prima lettura del Senato.
Tutto qui? Magari. Il guaio è che i parlamentari non rinunciano a correggere il testo originario del decreto, lo gonfiano come un otre di vino, lo annacquano aggiungendovi liquidi d'ogni colore e sapore. E di nuovo il milleproroghe fa scuola: da 4 a 9 articoli, da 25 a 196 commi. Finché il governo non confeziona un maxiemendamento buttando tutto dentro un solo articolo, che a leggerlo per intero ci metti una nottata. A quel punto il presidente potrebbe rifiutarne la promulgazione, ma come fa, è sotto ricatto: se lo rinvia alle Camere scadono i 60 giorni, e la manovra economica se ne va per aria. Sicché ammonisce, invia messaggi ai presidenti delle assemblee legislative (lo ha fatto il 22 febbraio, ed è riuscito quantomeno a ottenere il ripristino d'un testo omogeneo), oppure promulga "con riserva", dice sì anche se avrebbe voglia di pronunziare un mezzo no (è il caso della lettera inviata ai medesimi signori il 22 maggio 2010).