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Questo articolo è stato pubblicato il 01 marzo 2011 alle ore 09:10.
L'ultima modifica è del 01 marzo 2011 alle ore 09:10.

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Sussidiarietà, comunità locali, corpi intermedi sono concetti che appartengono all'Italia. Quella nuova, che compie 150 anni, e quella molto più vecchia. Sussidiarietà deriva dalla parola latina subsidium, che al tempo dei formidabili eserciti romani stava a indicare le forze di riserva posizionate dietro la prima linea della battaglia, pronte a intervenire in caso di bisogno.
Sulla sussidiarietà e sul bene comune rifletteva San Tommaso. Nel 1931, con l'enciclica Quadragesimo anno, Pio XI fissò il principio ispiratore della funzione suppletiva in modo che possa essere «più felice e più prospera» la condizione dello Stato stesso: «Ciò che gli uomini possono fare da sé con le proprie forze non può essere loro tolto e rimesso alla società». Ancora, nel 1961, nel pieno del boom economico, Giovanni XXIII con un'altra enciclica, la Mater et magistra, affermava che «l'esperienza attesta che dove manca l'iniziativa personale dei singoli vi è tirannide politica; ma vi è pure ristagno dei settori economici». Infine, come non ricordare che il principio della sussidiarietà è stato introdotto dalla riforma dell'articolo 118 della Costituzione e che lo stesso ispira il nuovo federalismo fiscale?

Insomma, la sussidiarietà come occasione di sviluppo, dove lo Stato non gioca da "invasore", non è un'invenzione inglese. E fa dunque una qualche impressione, nella Roma del subsidium, che sia un 34enne lord inglese, immigrato cinese di seconda generazione, a decantarne le eccezionali potenzialità. Già, perché invitato (lodevole iniziativa) dalla Fondazione Roma e dal suo presidente Emmanuele Emanuele, Lord Nat Wei, capo progetto politico della "Big Society" lanciata dal premier inglese David Cameron, ci ha spiegato il sogno per un nuovo sviluppo civile dove lo Stato fa un passo indietro e la libera iniziativa si coniuga all'associazionismo solidale. Big Society per Nat Wei è la barriera corallina, l'ecosistema nel quale i cittadini vivono, partecipano e si associano. Come dice Cameron, lo Stato si fa da parte e lascia spazio alle comunità locali: un arretramento operoso e virtuoso, all'insegna della considerazione che non può esservi ripresa vera senza ripresa (e fiducia) sociale.
I soldi pubblici scarseggiano ovunque, la sola logica dei "tagli" alla spesa è insufficiente. Bisogna inventarsi qualcosa di nuovo e funzionale. Una scuola pubblica non funziona come dovrebbe? Un parco pubblico ha problemi di gestione? I fondi pubblici per la sanità sono amministrati male? Bene, nella Big Society ci si associa dal basso per correggere e controllare meglio. E ci sarà anche la Big Society Bank (una specie di Banca d'Inghilterra per il settore sociale) dotata di circa 400 milioni di sterline che funzionerà da leva per lo sviluppo civile.

Naturalmente non mancano le critiche. Una fra tutte: è una mossa politicamente furba per mascherare e far digerire meglio ai cittadini il taglio drastico alle spese sociali. Controreplica: non si tratta solo di un problema economico, perché il fortissimo disagio sociale (si pensi per esempio all'impennata dell'alcolismo giovanile) pone in Inghilterra il problema di nuove forme di solidarismo civile.
Sia come sia, il dibattito sulla Big Society è rimbalzato in Italia. Che è insieme la culla storico-culturale di un progetto del genere e il paese che al momento ha un problema urgente di crescita dopo 15 anni di sviluppo stentato, come ha detto il governatore di Bankitalia Mario Draghi sabato scorso. Nella ricerca low cost per le "frustate" all'economia, un posto (se non una poltrona d'onore almeno una solida seggiola) potrebbe insomma essere riservato alla spinta per la Society all'italiana, che per Giuseppe De Rita coincide, più che nelle geometrie secche di Lord Nat Wei, nel fluido "corpaccione" nostrano.
Non che sia facile. Lo abbiamo visto col "cinque per mille" fiscale a favore della ricerca scientifica e del volontariato, nato con la legge finanziaria 2006 per la felice intuizione del ministro Giulio Tremonti. Nel 2008, alla vigilia delle elezioni, sollecitati da un mio articolo, Walter Veltroni e Silvio Berlusconi presero sul Sole 24 Ore un impegno bipartisan per stabilizzare (senza un tetto) il meccanismo. Siamo nel 2011, l'impegno è ancora sulla carta.

guido.gentili@ilsole24ore.com

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