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Questo articolo è stato pubblicato il 03 marzo 2011 alle ore 08:51.
L'ultima modifica è del 03 marzo 2011 alle ore 06:40.

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Il dibattito, adesso, è sulla no-fly zone nei cieli libici. Il pensiero torna all'Iraq. Non all'Iraq della controversa invasione del 2003, ma al regno di Saddam Hussein alla fine della prima guerra del Golfo. L'anno era il 1992. La comunità internazionale aveva appena cacciato dal Kuwait il despota di Baghdad. Sconfitto fuori dai suoi confini, Saddam si concentrò a reprimere nel sangue la rivolta sciita nella zona meridionale e quella curda nel nord dell'Iraq. In poche settimane, la ribellione anti Saddam, alimentata dalle aspettative internazionali, fu annientata.

Il massacro di sciiti, realizzato con gli elicotteri e grazie al pieno controllo dello spazio aereo, convinse le Nazioni Unite a istituire un divieto di volo sull'Iraq settentrionale, a protezione della popolazione civile.
Oggi, in Libia, il problema è lo stesso. L'apparato militare di Muammar Gheddafi usa l'aviazione per annientare le capacità dei ribelli di Bengasi. Secondo alcuni resoconti, anche per uccidere gli oppositori. Questo giornale, il 24 febbraio, è stato il primo a suggerire la no-fly zone come strumento per fermare la carneficina. Nazioni Unite e Nato ne stanno discutendo. Ma la scelta non è facile. Prendere il controllo del cielo libico è un'operazione militare.
Il Financial Times ha ricostruito le posizioni dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e delle più importanti potenze regionali. Russia e Turchia sono contrari al divieto di volo sulla Libia. Francia e Germania esprimono dubbi. Stati Uniti e Gran Bretagna sono disponibili e hanno avvicinato in zona navi e aerei. L'Italia è cauta. Non dice né sì né no, consapevole che la no-fly zone comporta bombardare i depositi di armi Gheddafi, stabilire le regole d'ingaggio contro l'artiglieria libica e non è detto che sia sufficiente.

I paesi contrari alla no-fly zone dicono che è uno strumento superfluo, inaccettabile, assurdo. Il primo ministro turco ha aggiunto un'argomentazione morale: l'occidente, ha detto Recep Tayyip Erdogan, per decenni ha usato i paesi mediorientali e africani come pedine nelle guerre per il petrolio. Intervenire in Libia, sostiene Erdogan, causerebbe problemi giganteschi. La posizione di Gheddafi è identica: se la Nato interviene, ha detto ieri, ci saranno migliaia di morti.
Queste parole sono da prendere in considerazione. L'America e l'occidente, come ha ribadito a West Point il capo del Pentagono Bob Gates, non possono permettersi una nuova guerra stile Iraq e Afghanistan, a maggior ragione in un paese arabo. Il presidente Obama, saggiamente, tiene i nervi saldi.
Lo status quo petrolifero è stato un caposaldo della politica estera e di sicurezza degli ultimi sessant'anni. Se questi despoti arabi hanno resistito così a lungo, le colpe sono anche dell'occidente che lo ha consentito. Ma gli errori del passato non cancellano le responsabilità odierne, semmai obbligano alla riparazione. I ribelli di Bengasi, del resto, chiedono formalmente questo al mondo che guarda con passione e speranza: no-fly zone, aiuti militari, azioni aeree contro i depositi di armi. Nemmeno a loro garba un intervento straniero. Sarebbero felici di fare da soli, come i vicini a Tunisi e al Cairo. Ma Gheddafi non è Ben Alì né Mubarak. Non lascia. Contro la sua determinazione, i ribelli non ce la fanno. Uno dei leader della rivolta ha detto al New York Times che sarebbe felice se Gheddafi cadesse senza l'aiuto straniero. Ma se il «cane pazzo» di Tripoli stesse per compiere un massacro, ha aggiunto, la priorità diventerebbe salvare la popolazione civile. Una buona politica, per Onu, Nato e noi.

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