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Questo articolo è stato pubblicato il 05 marzo 2011 alle ore 08:16.

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Dopo vent'anni di globalizzazione, il sistema delle relazioni industriali ha, come da più parti sostenuto, una profonda necessità di riforma, perché le aziende hanno anzitutto bisogno di governabilità mentre quel sistema le sottopone a un insieme di regole che complica oltremodo i processi decisionali e non assicura il rispetto degli accordi. Basti considerare che tra le aziende iscritte a Confindustria solo il 20% ha grandi dimensioni, mentre il restante 80% è fatto di piccole imprese che occupano meno di 50 dipendenti. Ed è di tutta evidenza che i problemi che devono fronteggiare le grandi aziende sono molto diversi da quelli delle piccole.
Basti pensare che, per forza di cose, le prime, come la Fiat, sono maggiormente proiettate sui mercati internazionali, spesso hanno sedi, stabilimenti e dipendenti all'estero e necessitano di maggiore governabilità, mentre le seconde sono in genere radicate sul territorio, dove occupano pochi dipendenti nell'unica sede aziendale e, se hanno necessità di internazionalizzarsi, preferiscono avvalersi dei servizi offerti dal sistema confindustriale, piuttosto che assumere direttamente dipendenti ad hoc. Allo stesso modo mentre nelle prime c'è di regola una nutrita e stabile rappresentanza sindacale, nelle seconde il sindacato è spesso assente perché i lavoratori dell'azienda non ne sentono il bisogno. Si sentono protetti dal contratto collettivo nazionale di lavoro (Ccnl) e, se hanno bisogno di qualcosa, trattano direttamente con l'imprenditore.
Si tratta di differenze importanti che dovrebbero riflettersi anche nella contrattazione collettiva. E invece, da vent'anni, tutte queste aziende, grandi e piccole, e i loro dipendenti sono soggetti allo stesso, complesso regime contrattuale. Un regime fatto di due livelli, nazionale e aziendale o territoriale, nel quale il più piccolo, quando c'è, fa solo quello che gli dice il più grande nelle materie da quest'ultimo delegate.
Un duplice regime rigidamente accentrato che, anche a causa delle troppe sovrapposizioni e dell'inderogabilità del Ccnl, ha soffocato le potenzialità di ciascun livello contrattuale. Il Ccnl, pur avendo una vocazione generalista, non è riuscito a proteggere il potere di acquisto dei lavoratori che si sono progressivamente impoveriti perché la competenza in tema di retribuzione variabile era del contratto collettivo aziendale. Quest'ultimo non si è mai diffuso perché la disciplina in tema di orari, pause, ferie e turni, e quindi tutte le materie collegate alla produttività del lavoro, sono rigidamente disciplinate dal Ccnl e quindi, non essendoci aumenti di produttività, non c'erano risorse per la retribuzione incentivante.
E così tutti si sono impoveriti. Le aziende, perché è crollata la produttività del lavoro, e i lavoratori. Per questo non deve destare stupore la richiesta che è stata avanzata anche dalla Confindustria di prevedere l'alternatività tra contratti collettivi di diverso livello.
A prescindere dalle ipocrisie e oltre le dispute ideologiche, è ora di riconoscere che per assicurare adeguata tutela ai lavoratori, un solo contratto collettivo può essere più che sufficiente. Non ne servono necessariamente due che si sovrappongono e generano confusione. Ne basta uno che sviluppi a pieno le proprie potenzialità e che sia sottoscritto da un sindacato effettivamente rappresentativo. Perché l'esperienza dimostra che non è detto che il sindacato nazionale tuteli i lavoratori meglio di quello aziendale.
In questa prospettiva, proprio perché il tasso di sindacalizzazione dei lavoratori nelle grandi aziende è superiore a quello dei lavoratori delle piccole aziende, le parti sociali che, dopo la vicenda Fiat, sono chiamate a riformare le relazioni industriali potrebbero ad esempio limitare la possibilità del contratto collettivo aziendale di sostituire la disciplina di quello nazionale alle imprese con più di 500 dipendenti nelle quali sono state elette rappresentanze sindacali aziendali.
Così, il Ccnl potrebbe continuare a tutelare i milioni di lavoratori delle piccole aziende che non possono sottoscrivere un contratto di secondo livello, continuando ad assicurare una disciplina di default che tuteli tutti lavoratori su tutto il territorio nazionale. Nelle grandi aziende più esposte alla competizione internazionale, il contratto collettivo aziendale potrebbe invece sostituire, anche interamente, quello nazionale per consentire agli imprenditori e alle rappresentanze sindacali di ricercare, nel rispetto del principio democratico e in relazione alle esigenze di ogni realtà produttiva, nuovi e più avanzati punti di incontro in tema di salario, orario di lavoro, partecipazione dei lavoratori agli utili delle aziende, premi di produttività e via dicendo.
In definitiva, si tratterebbe di un incentivo sindacale alla crescita delle imprese e dell'occupazione, in un paese nel quale sono soffocate da tanti conservatorismi legislativi. Se l'articolo 18 le ha condannate al nanismo dimensionale, questa piccola accortezza consentirebbe ai contratti collettivi aziendali di essere motore della crescita dimensionale delle aziende perché consentirebbe nelle grandi aziende nelle quali c'è un sindacato aziendale rappresentativo di trattare a tutto campo con quest'ultimo sia gli aumenti di produttività sia quelli retributivi.
In fondo, basterebbe applicare l'aurea regola "a ciascuno il suo mestiere".
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