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Questo articolo è stato pubblicato il 09 marzo 2011 alle ore 08:29.
L'ultima modifica è del 09 marzo 2011 alle ore 06:38.

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Stiamo assistendo, nelle ultime settimane, al rapido transitare della Libia verso la guerra civile, una guerra civile che può durare mesi o anche anni. Nessuno tra gli esperti internazionali poteva aspettarsi una reazione tanto violenta da parte di Gheddafi, con l'uso di armi pesanti e bombardamenti aerei sulla popolazione civile inerme. Queste immagini contrastano con quelle in cui Gheddafi veniva ricevuto da gran parte delle cancellerie occidentali. Il contrasto è stridente, perciò c'è grande stupore dinanzi a quanto sta accadendo, e la questione libica è diventata un rompicapo per il mondo.

Sappiamo di avere a che fare con una personalità dalle reazioni imprevedibili; e il rischio che la Libia si trasformi in un nuovo Afghanistan o una nuova Somalia aumenta di giorno in giorno, perché il paese non dispone di cinture protettive quali possono essere l'esercito o istituzioni rappresentative.
Lo spazio è dunque aperto a derive che potrebbero trascinare l'intera area maghrebina, e non solo, verso un'instabilità permanente. Ma la Libia è troppo importante per lasciarla in balìa di apprendisti stregoni che potrebbero usarla per i loro progetti. Dal punto di vista economico è il quarto fornitore per l'Europa di idrocarburi; e lo stato libico negli ultimi anni è entrato a far parte anche dell'economia finanziaria internazionale attraverso i fondi sovrani (le cui quote ieri sono state sterilizzate dall'Unione Europea). E gli economisti sanno bene quali effetti potrebbe avere la crisi libica sulle economie che hanno partecipazioni libiche a diversi livelli, in un momento comunque è ancora di crisi economica globale.
Ma queste situazioni obbligano a scelte che possono essere più o meno drastiche, e di cui non siamo in grado di misurare impatto e conseguenze. Il caso libico è dunque una specie di quadratura del cerchio: qualunque scelta comporterà conseguenze negative. Obiettivamente la situazione è arrivata a un tale grado di decomposizione che, anche se Gheddafi fosse in grado di riconquistare tutte le città della Libia, la sua battaglia sarebbe persa sul piano politico: è comunque un leader isolato, e isolandosi si è precluso la possibilità di riaprire qualunque negoziato.

Un intervento militare aereo potrebbe portare alla sua fine fisica; ma quale sarebbe la reazione della tribù cui Gheddafi appartiene? Nessuno è in grado di immaginarlo. L'altra possibilità è quella di un negoziato: ma Bengasi ha rifiutato, perché ormai il processo di guerra civile che si è innescato non è solo un conflitto fra un tiranno e il suo popolo, ma un conflitto in cui entrano codici culturali che non appartengono all'ordine politico occidentale: vi si mescolano antichi attriti fra tribù e clan, con i relativi codici d'onore (muruwa) che prevedono il riscatto del sangue versato, a breve o lungo termine. E questo rappresenta un pericolo: perché l'ombra della vendetta, attraverso il terrorismo, rischia di sbarcare sulla sponda nord del Mediterraneo; l'Italia l'ha già vissuto negli anni Ottanta. La tribù di appartenenza di Gheddafi è stimata in circa 140mila persone.
L'altra possibilità che si offre alla comunità internazionale è quella di un negoziato finalizzato a un salvacondotto; ma ciò non rappresenterebbe uno strappo al diritto internazionale, visto che Gheddafi è ormai completamente delegittimato dalla comunità internazionale?
La soluzione potrebbe essere una terza via: imporre alla sua tribù di negoziare con il Colonnello Gheddafi e con la comunità internazionale per un suo allontanamento dal potere politico e dal paese.

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