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Questo articolo è stato pubblicato il 10 marzo 2011 alle ore 07:40.

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Se l'obiettivo della riforma Alfano è quello di cambiare in tempi abbastanza brevi gli assetti della giustizia in Italia (e quindi il grado di efficienza del sistema), nessuno si fa illusioni. Il disegno di legge costituzionale è stato approvato oggi dal Consiglio dei Ministri. Ma adesso comincerà un lungo percorso parlamentare, fatto di quattro "letture", più un referendum confermativo finale. Occorre molta fiducia nello spirito riformatore della classe politica per scorgere fin d'ora il traguardo.

Se invece il proposito è quello di smuovere le acque e di proporre l'immagine nuova di un governo non solo costretto sulla difensiva dai processi penali che incombono sul presidente del Consiglio, ma anche capace di passare alla controffensiva, allora l'operazione ha una sua logica. Tutta politica e mediatica. Volta a dimostrare che la spinta riformatrice, quando c'è, si trova sul versante del centrodestra, mentre a sinistra prevalgono le chiusure corporative e conservatrici.

Si tratta d'intendersi su quale messaggio si vuole trasmettere all'opinione pubblica. È chiaro che una riforma costituzionale di questa portata richiederebbe un alto grado di convergenza fra maggioranza e opposizione. Ma è altrettanto sicuro che in questo momento non è plausibile un accordo generale in Parlamento. Per almeno tre ragioni.
Primo, il grado di nevrosi della polemica pubblica è molto alto e qui si tratta di metter mano alla Costituzione in uno dei suoi gangli più delicati. Peraltro stiamo andando verso la fine della legislatura. Di conseguenza il quadro è tutt'altro che favorevole a un'intesa «di sistema», trasversale.

Secondo, il proponente del disegno di legge si chiama Berlusconi e il suo braccio di ferro con la magistratura dura da diciassette anni. Che sia proprio lui a tenere a battesimo una riforma «epocale», con la separazione delle carriere e la fine dell'obbligatorietà dell'azione penale, è poco credibile.

Terzo, il fatto che la riforma sia ragionevole e addirittura colga molti spunti contenuti nella vecchia «bozza Boato» (parliamo della bicamerale D'Alema del 1997-'98) non semplifica le cose. Anzi, le complica. È vero che a sinistra più d'uno sulla carta potrebbe sottoscrivere qualcuna delle proposte illustrate ieri da Alfano al capo dello Stato. Ma, appunto, sulla carta. Nella pratica le scelte politiche si fanno quando ricorrono le circostanze idonee. E questo vale per il Pd come per il «terzo polo», dove Fini e Casini condividono senza dubbio alcuni indirizzi riformatori, eppure si muovono con estrema prudenza.
In un certo senso, Berlusconi ha ottenuto quello che voleva. Ha messo in imbarazzo l'opposizione, ha sparso il seme del dubbio nel «terzo polo» e un po' di malessere anche nel partito di Bersani, che aveva appena finito di raccogliere le famose firme contro il presidente del Consiglio.

Ora l'opposizione deve fare i conti con una proposta concreta. E non può pensare che sia Napolitano a toglierle le castagne dal fuoco: il Quirinale è «distaccato» e non può essere altrimenti. Semmai la questione è politica. Di Pietro e Vendola sono di nuovo al centro della scena, all'insegna del «no» più intransigente. E sarà «no» anche da parte del Pd, lo sappiamo. A un prezzo, però: quello di essere identificati una volta di più nel «partito dei magistrati». Non avremo la riforma, con ogni probabilità, ma Berlusconi si è mosso con abilità.

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