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Questo articolo è stato pubblicato il 11 marzo 2011 alle ore 08:55.
L'ultima modifica è del 11 marzo 2011 alle ore 09:03.

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Sulla riforma della giustizia proposta dal governo le opposizioni non si sono realmente divise, tuttavia non appaiono compatte. Prevale il «no», questo è chiaro, ma declinato in varie forme: a testimoniare un minimo d'imbarazzo in chi fino a ieri aveva di fronte un Berlusconi la cui politica della giustizia si limitava all'anatema quotidiano contro i magistrati. Ora quello stesso premier, pur incalzato dai processi e quindi minato nella sua credibilità, ha messo sul tavolo un ambizioso riordino del sistema giudiziario. Un riordino che in effetti assomiglia a una rivoluzione costituzionale. Come reagisce l'opposizione?

C'è chi delegittima completamente il progetto Alfano. Di Pietro, Vendola e molte voci nel Pd sostengono che si tratta né più né meno di una spedizione punitiva contro la magistratura, volta a cancellarne l'autonomia e a subordinarla al potere politico. Una legge «ad personam» in forme diverse dal passato e molto più pericolose. È la stessa linea dell'Associazione nazionale magistrati che realizza in questo caso una simbiosi quasi totale con una parte dello schieramento parlamentare.

Anche Bersani, è ovvio, rifiuta la riforma berlusconiana, ma con un argomento lievemente diverso. Non rigetta del tutto la necessità di un disegno, ma afferma che «ci vorrebbe ben altro». Non una legge che modifica i ruoli e gli equilibri della magistratura, bensì un intervento «funzionale» per rendere la giustizia più rapida ed efficiente. Nessuna riscrittura della Costituzione, ma una serie di provvedimenti per via ordinaria. Il che è un modo un po' elusivo per aggirare le questioni poste dall'iniziativa governativa. Tanto è vero che D'Alema va al nocciolo della questione: nessuna riforma è plausibile finchè Berlusconi resta a Palazzo Chigi con il suo carico di imputazioni.

Come dire che la riforma Alfano contiene forse qualcosa di buono, ma non è proponibile a causa della cornice politica generale in cui s'inserisce. Non è accettabile in via di principio che Berlusconi possa mai intestarsi una svolta di questa portata.

Infine c'è una terza posizione, espressa dal polo centrista e da una minoranza del Pd (ad esempio Follini, ma non solo). È la tesi di chi non vuole sottrarsi al confronto di merito e chiede che anche l'opposizione sia in grado di mettere in campo proposte e idee. È il punto di vista di chi teme che un «no» troppo intransigente regali a Berlusconi quella fascia d'opinione pubblica sospettosa di una magistratura troppo invadente. Quindi un'opinione favorevole, quanto meno, alla separazione delle carriere e alla responsabilità civile dei magistrati.

Ma c'è anche un'altra paura nei sostenitori di questa posizione. Essi vedono il rischio che il braccio di ferro sulla giustizia sposti gli assetti del centrosinistra e spinga il vertice del Pd più vicino a Di Pietro e Vendola. Non è un timore infondato. Non bisogna dimenticare che in giugno si voterà per il referendum sul legittimo impedimento. Una consultazione che diventerà - è inevitabile - un plebiscito su Berlusconi. Mesi di polemiche sulla giustizia sarebbero una potente spinta al raggiungimento del «quorum». E quindi alla vittoria degli intransigenti. Prospettiva a cui contribuisce lo stesso Berlusconi quando annuncia, forse senza rendersi conto del peso delle parole, che con l'attuale riforma vent'anni fa non ci sarebbe stato il fenomeno di Mani Pulite. Una «gaffe» o la lucida volontà di radicalizzare lo scontro?

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