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Questo articolo è stato pubblicato il 19 marzo 2011 alle ore 10:00.

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Umberto Eco ha sintetizzato una volta la storia della letteratura novecentesca con un divertente apologo. Un uomo ama una donna e vuole manifestarle i propri sentimenti, ma tutti e due detestano le frasi fatte, e questo li condanna ad aggirare con una serie di stratagemmi il loro rifiuto di nominare in maniera diretta ciò che provano l'uno per l'altra: è lo stadio modernista e avanguardista dell'arte. Col tempo però, a forza di sperimentare ogni volta modi inediti di comunicare quell'unico sentimento, all'uomo e alla donna rimangono sempre meno soluzioni percorribili. Si rischia di nuovo la paralisi, finché l'uomo non ha un'idea brillante: dirà alla donna «ti amo disperatamente, come scriverebbe Liala», così da raggiungere il cuore dell'amata senza cadere nel ridicolo ai suoi e ai propri occhi. È nato il postmoderno.

Se Eco ha ragione, il discorso di Napolitano in occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell'Unità può essere considerato un perfetto esempio di patriottismo postmoderno. Napolitano dichiara subito il suo e il nostro imbarazzo per la retorica nello stesso momento in cui invita a superarlo. E tuttavia non gli basta ricordare che le parole – nel caso del Risorgimento – rimandano a una serie di eventi che posseggono davvero tutti i caratteri dell'eccezionalità. Da un punto di vista argomentativo imbocca subito un'altra strada: anche perché la sua storia politica è diversa da quella di Ciampi e lo porta a pronunciare la parola patria con una punta di pudore in più.

La soluzione è stata così quella di citare le affermazioni apparentemente più retoriche, affidandosi alla voce dei protagonisti di allora (Cavour e Mazzini) o di uno storico e militante antifascista quale Giovanni Salvemini. Con il risultato che l'eccesso di enfasi inaggirabile in questi casi viene delegato per intero a loro: «consacrare», «l'opera di giustizia e di riparazione», «solennemente», «lo straniero» (per parlare dell'Austria), «un'opera ciclopica». Ma si può dire lo stesso a proposito della costruzione sintattica, dal momento che le uniche anafore del discorso di Napolitano (un indizio sicuro di retorica tradizionale) sono anch'esse riprese da Mazzini.

Questa scelta portante d'invitare gli italiani a guardare il Risorgimento con gli occhi di allora ha però un'altra conseguenza. Celebrare il Risorgimento senza retorica vuol dire ricordare che l'Unità di oggi è nata da un processo anche divisivo; che i successi di ieri sono stati il frutto di una frattura e che talune delle sventure successive (il fascismo) hanno avuto origine nella forma spesso contraddittoria con cui il processo unitario si è realizzato.

Napolitano riesce tanto più convincente come incarnazione dei valori che affratellano, quanto più – per biografia personale e tradizione politica – è stato un uomo di parte nel senso più alto che si possa attribuire a questa espressione. Osservare la storia d'Italia non soltanto dall'oggi, ma nel pieno del marasma di allora, senza perdere di vista le lacerazioni che l'hanno percorsa dal 1861, significa infatti proporre una versione tutt'altro che irenica degli ultimi 150 anni: eppure, proprio per questo, tanto più convicente.

In questo caso, l'abilità di Napolitano è tutta nella sua capacità di inglobare le possibili critiche ammettendone la sensatezza, ma anche la sostanziale parzialità; nominandole a una a una, solo per poter meglio andare oltre; insomma superandole senza rimuoverle. Il riferimento alla non partecipazione popolare al Risorgimento risponde così a Gramsci e a Gobetti, la difesa della necessità del centralismo piemontese previene le accuse della Lega, mentre la citazione di Benedetto XVI sancisce il superamento del conflitto originario tra Stato e Chiesa.

Non è facile tenere assieme l'Italia, oggi. E Napolitano sta cercando di farlo nel modo migliore: non negando la forza delle energie disgreganti che la minacciano ma, per così dire, giocando d'anticipo. In modo che i conflitti di ieri non possano più fomentare quelli di domani.

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