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Questo articolo è stato pubblicato il 19 marzo 2011 alle ore 10:03.

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Per ora, è un capolavoro politico di Barack Obama. Anche se non sembra. La risoluzione 1973 delle Nazioni Unite che ha autorizzato per motivi umanitari l'uso della forza in Libia, ma non l'invasione terrestre, è il prodotto di una contraddittoria, a tratti scombinata, ma infine efficace strategia della Casa Bianca.

Sia pure in ritardo e tra mille tentennamenti, Obama è riuscito a far passare un'eventuale operazione militare americana per cambiare il regime di Gheddafi (regime change) come un'iniziativa della Lega Araba, come una richiesta della popolazione civile libica, come una bizzarra fissazione della Francia, come un'emergenza internazionale condivisa e vidimata da una risoluzione delle Nazioni Unite.

Il testo Onu non è stato presentato dagli Stati Uniti, ma dal Libano, un paese arabo e islamico. Gli sponsor sono stati la Francia e, più defilata, la Gran Bretagna. Cina e Russia non si sono opposti. I primi raid aerei saranno francesi, così come la leadership ideologica (a Bengasi hanno festeggiato con i tricolori di Francia). Le basi saranno italiane. Emirati Arabi e Qatar parteciperanno alle operazioni belliche.

I critici di Obama sostengono che l'America abbia perso lo status di leader mondiale. Ma a guidare gli eventi c'è sempre Washington. La preoccupazione di Obama è di non lasciare le impronte. Un'iniziativa made in Usa avrebbe scatenato alcune piazze islamiche, mobilitato le masse pacifiste europee e aperto un fronte politico interno molto pericoloso a un anno dalle elezioni.

Uno come George W. Bush avrebbe convocato più volte il paese in tv, spiegato l'obbligo morale dell'intervento e agito unilateralmente, attirandosi le accuse di arroganza imperiale. Bill Clinton sarebbe stato più suadente, avrebbe simulato un grande interesse per le liturgie della comunità internazionale e agli americani avrebbe trasmesso empaticamente la sofferenza delle vittime libiche, ma alla fine sarebbe intervenuto unilateralmente anche senza l'Onu, come fece in Kosovo.

Il modello Obama è diverso, più sfuggente. In Afghanistan ha triplicato il numero dei soldati rispetto a Bush, ma ha vinto ugualmente il Nobel per la Pace. Nel 2010 ha bombardato 117 volte in territorio pakistano (815 le vittime accertate). Quest'anno siamo già a 19 attacchi e a 104 morti. La Casa Bianca però non ne parla. Ufficialmente quei bombardamenti con i droni non esistono. Caso chiuso.

In origine Obama non aveva alcuna intenzione di intervenire. Sono stati gli eventi, l'emergenza umanitaria e la pressione internazionale a costringerlo. Obama non crede che la Libia sia strategica per gli interessi nazionali statunitensi. Non vuole impelagarsi in un'altra guerra con il quarto paese islamico in nove anni. Non è nemmeno certo di avere le risorse necessarie ad aprire un altro fronte.

Spinto da alcuni suoi collaboratori interventisti, come la Pulitzer Samantha Power che ha studiato la tragedia balcanica e come prevenire i genocidi, il presidente ha però colto l'occasione per riallineare gli interessi ai valori americani. «Gheddafi se ne deve andare», ha detto. Per alcune settimane è sembrato immobile, ma cercava il consenso. Ora tutto è pronto, anche se il ritardo costerà caro.

Il regime libico ha cambiato tono. Il cessate il fuoco è perlomeno ambiguo, ma c'è la sensazione che la voce grossa dell'Onu possa convincere Gheddafi a lasciare. Ai tempi di Saddam, l'Onu si è tirata indietro. Al Consiglio di Sicurezza, del resto, c'era un uomo di Chirac, non di Sarkozy. Nel 2003 Saddam si era convinto che l'opposizione della Francia, il no della Germania e la mobilitazione pacifista occidentale avrebbero fermato Bush, Blair e gli altri paesi della coalizione dei volenterosi. Ora Gheddafi non è più in grado di fare quella scommessa.

Obama spera che il Colonnello lasci o che la parte più ragionevole del regime lo tolga di torno. Ma la speranza non è una strategia. Quando i caccia si alzano in volo e le navi lanciano i missili l'esito non è mai scontato. Il capolavoro politico di Obama sarà sottoposto a un test più difficile. Ma il precedente iracheno dimostra che la sfida vera si apre dopo la caduta del regime. Saranno pronti, questa volta, i piani per il dopo Gheddafi, per la stabilizzazione e per la ricostruzione della Libia?

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