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Questo articolo è stato pubblicato il 20 marzo 2011 alle ore 15:34.
L'ultima modifica è del 20 marzo 2011 alle ore 14:34.

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Atto dovuto ma la fine non è scritta (Reuters)Atto dovuto ma la fine non è scritta (Reuters)

Le guerre si sa come cominciano ma non come finiscono. Anche questa, iniziata dalla Francia con un'impennata di "grandeur". Gli esempi dell'Iraq e dell'Afghanistan sono eloquenti, per non parlare della dimenticata Somalia. Eppure qualche cosa in Libia bisognava fare: per senso umanitario, per il prestigio delle potenze occidentali, per il mero interesse economico; per evitare che lo "scatolone di sabbia" sprofondi in mani altrui insieme a tutto il suo gas e petrolio. Già pensare perché interveniamo anche noi italiani, quasi cento anni dopo il nostro primo bombardamento di Tripoli nel 1911, non è questione secondaria: l'ombrello dell'Onu, diversamente da quanto accadde in Iraq, ci mette al riparo da divisioni laceranti.

La comunità internazionale e quella nazionale, con qualche eccezione, sembra unita nel voler punire il Colonnello. Ma è un'apparenza: se le cose non andassero per il verso giusto riaffioreranno i contrasti. Che con la "no fly zone" si stia facendo la scelta migliore è da dimostrare: questo è il rischio della guerra, soprattutto se condotta soltanto dal cielo. Forse è troppo poco e troppo tardi per tentare di salvare la pelle ai ribelli di Bengasi. Tre settimane fa Gheddafi era dato per spacciato, oggi ha rioccupato buona parte del territorio e i terminali petroliferi: basterà l'intervento aereo a sbalzare il più longevo dei dittatori arabi? I precedenti non sono confortanti. In Bosnia nel '95 i serbi ebbero tutto il tempo di massacrare 8mila musulmani a Srebrenica. Nel '91, dopo la guerra del Golfo, la no fly zone sull'Iraq venne dichiarata quando Saddam aveva annientato migliaia di curdi e di sciiti.


Questa volta forse si è appena in tempo per evitare qualche strage orrenda ma non ne siamo del tutto sicuri. Il Colonnello in questo mese _ la rivolta di Bengasi è cominciata il 17 febbraio _ ha avuto il tempo di riorganizzarsi dopo una fase iniziale in cui sembrava perduto. Gheddafi ha potuto contare su aiuti militari esterni, dalla Siria al Sudan, e con una montagna di quattrini è riuscito non solo a comprarsi i mercenari ma anche ad assicurarsi la fedeltà delle tribù della Tripolitania. Rinsaldata la retrovia è passato alla controffensiva anche mediatica, mettendo in primo piano il più istruito della famiglia, Seif Islam.


Gli insorti, grazie anche al supporto delle tv, sono stati sicuramente più abili a comunicare sfruttando l'onda emozionale della primavera araba di Tunisi e del Cairo. Al punto che forse li avevamo creduti capaci di vincere senza tenere conto del contesto complessivo in cui si svolgeva la battaglia. Il fronte dei ribelli invece non è riuscito a sfondare e si è arroccato in Cirenaica: la sconfitta è stata militare ma anche politica. Tra tante previsioni sbagliate la meno imprecisa si è rivelata quella del direttore dell'Intelligence nazionale americana, James Clapper, il quale 10 giorni fa aveva dichiarato al Senato che Gheddafi avrebbe battuto i ribelli: sicuramente, entrando a Bengasi, ci è arrivato vicino. Quale futuro aspetta ora la Libia? I raid aerei, oltre che sulle forze di Gheddafi, si fiondano sul corpo di un Paese malato, ben diverso dai suoi vicini come la Tunisia e l'Egitto. La Libia, come lo fu l'Iraq di Saddam, è una nazione narcotizzata e brutalizzata che per 40 anni si è identificata in maniera assoluta con il suo leader. Come la Somalia o l'Afghanistan dei talebani non può essere considerata uno stato nel vero senso della parola, mancando di un'amministrazione, di istituzioni certe e persino di forze armate nazionali.


Poi c'è la questione delle divisioni regionali e tribali. "La Libia è fatta di tribù, non esistono partiti politici, solo tribù", ha detto il figlio di Gheddafi, Seif. Certo è una versione accettabile soprattutto per il Colonnello: dopo aver provato negli anni ‘70 a sradicarle con le ideologie panarabe e quelle populistiche del "Libro Verde", per restare al potere si è affidato alle alleanze tribali. Ma questa non è la sola lettura della società libica di oggi, assai più complessa e influenzata sia dalle ideologie occidentali che da quelle di stampo islamista. In realtà la Libia è una nazione frammentata, in divenire, ma anche uno Stato da ricostruire, superando le antiche resistenze culturali in contrasto con le aspirazioni delle nuove generazioni. Un compito immane, che non si esaurisce certo con la "no fly zone" e neppure con l'eventuale caduta di Gheddafi. La vecchia Libia non muore e quella nuova non nasce soltanto affidandosi ai raid aerei.

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