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Questo articolo è stato pubblicato il 22 marzo 2011 alle ore 08:17.
L'ultima modifica è del 22 marzo 2011 alle ore 06:39.

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«Se non fossimo intervenuti militarmente, le truppe di Gheddafi sarebbero entrate a Bengasi e fatto un massacro che gli arabi avrebbero rinfacciato a noi occidentali», osserva il politologo francese Olivier Roy. Detto questo, la tesi di Roy, editorialista del quotidiano Le Monde, è che i giovani arabi scesi in piazza appartengono a una generazione post-islamista: si sono lasciati alle spalle le vecchie ideologie per passare a slogan concreti che esprimono il rifiuto delle dittature corrotte e la richiesta di diritti. Questo non vuol dire che i manifestanti siano laici; non vedono però nell'Islam la soluzione per un mondo migliore.

E quindi i Fratelli musulmani «non saranno in grado di prendere le redini dell'Egitto, anche se potranno avere un ruolo alleandosi ai conservatori legati al regime precedente».
Secondo Roy, ad aver fatto il suo tempo è anche il panarabismo, cui è subentrato «uno spazio di rappresentazione mediatica dove domina il mimetismo: gli arabi si guardano l'un l'altro, come in uno specchio, la cacciata del tunisino Ben Ali affascina altri arabi e scatena ulteriori rivolte». Nel caso della Libia, «Gheddafi ha litigato con quasi tutti i dirigenti mediorientali, che non vedono l'ora che se ne vada. Anche se, di fronte all'attacco militare, la Lega Araba è in imbarazzo per due motivi: non può legittimare un'operazione che ricorda l'intervento americano in Iraq del 2003, e non vuole che l'opposizione prenda il potere con le armi, con una sollevazione popolare che potrebbe essere presa ad esempio».

L'imbarazzo è condiviso dall'Unione Africana: «Diversi paesi sono stati finanziati da Gheddafi, e ora temono la vittoria dell'opposizione libica che potrebbe ispirare le regioni africane in subbuglio». L'esito libico è incerto e Roy individua due scenari. Se Gheddafi resiste più del previsto, ci ritroveremo «come in Iraq negli anni 80, con la prospettiva di una divisione del paese». Sarebbe invece auspicabile che «l'opposizione fosse sufficientemente organizzata e forte per marciare su Tripoli e prendere il potere. Per ora non è certo se l'opposizione sarà in grado di uscire dal suo feudo in Cirenaica, non è chiaro il sostegno di cui Gheddafi gode ancora nella regione di Tripoli, e non sappiamo nemmeno se è in corso una guerra civile o se questo è il colpo di coda di un dittatore».

Il politologo francese, che per il ciclo "Cattedra del Mediterraneo" di Cipmo, domani 23 marzo 2011 alle ore 17,30, discuterà a Milano, a Palazzo Turati (via Meravigli 9/b) di «Mondo arabo: la rivoluzione post-islamista», comprende le incertezze dell'Italia, che assolve buttandola sul ridere: «Sdoganare il Colonnello è stato un errore, ma il premier Berlusconi non è il solo leader europeo ad avere baciato la mano a Gheddafi!».

L'Italia ha tutto l'interesse a una soluzione rapida, per motivi legati non solo all'approvvigionamento energetico ma anche alla sicurezza e all'immigrazione: «Gheddafi non ha simpatizzanti né legami con i gruppi terroristici transnazionali, il solo pericolo è che paghi qualcuno per far scoppiare una bomba». Per quanto riguarda l'immigrazione, «a voler venire in Europa sono gli abitanti dell'Africa nera, ormai l'ondata migratoria maghrebina si è esaurita e coloro che arrivano a Lampedusa sono solo in transito».

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