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Questo articolo è stato pubblicato il 25 marzo 2011 alle ore 08:56.
L'ultima modifica è del 25 marzo 2011 alle ore 06:39.

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Il dibattito sull'italianità delle imprese suscitato in questi giorni dai casi Lactalis-Parmalat e Edf-Edison solleva il tema importante della reciprocità nelle condizioni di accesso delle imprese straniere a terzi mercati. Ma anche di una certa debolezza del "sistema Italia", dove non abbondano soggetti forti in grado di pilotare passaggi di proprietà o di assicurare una continuità nazionale a aziende importanti.

Sul primo punto, va detto (ma si tratta solo di buonsenso) che un'impresa italiana che vuole comperare un'impresa in Francia dovrebbe godere degli stessi diritti e doveri di un'impresa francese in Italia. Questo è un principio giusto, che dovrebbe essere accolto a livello europeo in modo da definire regole comuni e uniformi in tutta l'Unione.
Il concetto di reciprocità può però essere declinato in forma restrittiva o in forma liberista. Se da un lato è comprensibile che le nazioni europee vogliano tutelare alcune attività strategiche, d'altro canto potrebbe essere un grave errore perdere, in nome della nazionalità delle imprese, l'opportunità che un investimento estero può rappresentare per lo sviluppo di un Paese.

Ma non solo: l'ostacolare il mercato, nel fare e disfare le proprietà aziendale, nel fondere e inglobare soggetti diversi sotto la stessa proprietà, può anche essere pericoloso per quanto riguarda la struttura del capitalismo europeo nei confronti delle altre aree continentali. Esiste soprattutto la difficoltà di distinguere tra investimenti che apportano competenza e accrescono il valore della società acquisita e acquisizioni mirate piuttosto a eliminare un'impresa o indebolire un intero sistema industriale concorrente. In sostanza, ci si trova come di fronte a un bivio.

È più importante che l'azienda X raggiunga attraverso l'ingresso in un altro gruppo (magari anche straniero) dimensioni e ruoli che le assicurano un futuro nella competizione globale? O è più importante che, comunque, rimanga "italiana", indipendentemente da ogni altra considerazione?
In Italia le imprese multinazionali danno lavoro a quasi un milione di persone e generano un fatturato di oltre 500 miliardi e un valore aggiunto di oltre 100 miliardi. Nonostante l'entità di questi numeri, il problema del nostro paese è attrarre maggiori capitali esteri. Nel 2009 il rapporto tra flussi d'investimenti in entrata e Pil è stato in Italia di circa il 7%, meno della media europea. La Francia, il Paese con le regole restrittive a cui vorremmo uniformarci, ha comunque uno stock d'investimenti esteri tre volte maggiore del nostro con un gap nell'ultimo quinquennio di circa 25-30 miliardi all'anno: un lavoratore francese ogni quattro lavora per una compagnia a capitale straniero, uno ogni otto da noi.
Se avessimo lo stesso afflusso d'investimenti in entrata della Francia, la nostra economia potrebbe crescere anche più rapidamente.

Il problema è dunque come riuscire a conciliare la difesa di attività strategiche (il cui elenco va definito in sede europea nell'ambito di un accordo globale) con maggiori afflussi di capitali esteri, che soprattutto abbiano la capacità e la caratteristica di rafforzare la posizione competitiva del nostro Paese. Se il gap di attrattività è forte in termini generali, è ancora maggiore se consideriamo attività ad alto contenuto tecnologico e strategico, come gli Headquarter regionali o il laboratori di ricerca e sviluppo.
Le sopracciglia si alzano all'idea che le imprese estere acquistino i gioielli del nostro Paese. Ma è evidente che se l'Italia ha imprese forti, capaci di stare sul mercato internazionale e con una presenza importante in un mercato che conta 60 milioni di persone, queste siano desiderate e contese da potenziali investitori globali. Il problema, che il Paese si deve porre è come creare sinergie con le imprese globali in modo da aumentare il numero di imprese di questo tipo, che riescano a loro volta a portare il nostro paese nel mondo...

Ma c'è anche il problema, italiano, di un capitalismo debole, spesso di origine familiare, che non ha la forza di produrre "soggetti forti" in grado d'intervenire in situazioni di crisi aziendale o di rafforzamento della compagine azionaria. In sostanza, il capitalismo italiano deve crescere. E per questo servono interventi che lo aiutino a fare dei passi in avanti (più trasparenza, più competizione, più grandi progetti con cui misurarsi). Un sistema che risulta 80° nelle classifiche mondiali per la facilità di condurre un business (dati Banca mondiale 2010) e nel quale servono dieci anni per arrivare alla definizione di una causa civile, non è certo l'ideale per far crescere un capitalismo maturo e in grado di reggere la competizione internazionale.
Giuseppe Recchi è presidente e Ad di GE Sud Europa e presidente Investitori esteri di Confindustria

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