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Questo articolo è stato pubblicato il 31 marzo 2011 alle ore 09:24.
L'ultima modifica è del 31 marzo 2011 alle ore 09:25.

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L'economia italiana ha bisogno di crescere, e per farlo ha necessità che il motore dello sviluppo possa girare a pieno regime. Piaccia o no, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, quello italiano è un sistema "bancocentrico". Se il rubinetto del credito si chiude o anche solo rallenta i finanziamenti alle imprese (in particolare quelle medio-piccole) già impegnate in una difficile stagione di riposizionamento sui mercati, le prospettive di crescita evaporano. E non saranno operazioni di sola ingegneria finanziaria o maxi-salvataggi più o meno blasonati a portarci fuori dalle secche.
È tutt'altro che banalmente ricorrente la preoccupazione di chi ogni giorno ha il problema di allargare (nei Paesi emergenti, dove le prospettive per il made in Italy sono ottime) o di mantenere - quando va bene - le sue quote di mercato. Che poi vuol dire scommettere sul futuro dell'azienda per sé e per chi ci lavora, innescando anche per questa via quella crescita che non riusciamo da anni ad agguantare.

Non parliamo di tassi di sviluppo del 5%, tipo quelli dei decenni del "miracolo". Si ragiona su come conquistare quota 2% di ritmo annuo, cifra al momento non prevista dal Fondo monetario o dall'Ocse. L'Italia viaggia oggi al passo di un potenziale di crescita pari all'1%. Troppo poco per un Paese che ha registrato una profonda erosione di competitività anche nei confronti di Germania e Francia e che da quasi un quarto di secolo registra un debito pubblico superiore al 90% del Pil.
Il problema del credito era e resta fondamentale. Lo era nella Grande Crisi, per ovvie ragioni. Lo è oggi, in un contesto di fondo dove ai primi segnali di ripresa globale (Italia compresa, anche se a ritmi più blandi) hanno fatto seguito una serie di rischi nuovi, a partire dalla catastrofe giapponese, la crisi libica, le tensioni in Medio Oriente, il rincaro delle materie prime e in particolare del petrolio, la crisi contagiosa dei debiti sovrani in Europa che impone correzioni di rotta a tutti i Paesi, la prospettiva di un aumento dei tassi d'interesse.

Ha detto ieri Lorenzo Bini Smaghi, membro del board della Banca centrale europea: rispetto agli stress test del 2010, gli scenari di fondo dei nuovi test bancari in corso sono «notevolmente più sfavorevoli».
È per certi versi coerente con questo quadro, anche a motivo della crescita delle sofferenze bancarie, delle prospettive dell'entrata in vigore di Basilea 3 e della necessità indiscutibile che le banche rafforzino i loro patrimoni, il dato che il credito si sia fatto in Italia via via più selettivo e in definitiva, nella realtà quotidiana percepita dagli imprenditori, più scarso. Al di là dei numeri complessivi che indicano per l'inizio del 2011 una crescita degli impieghi, per la maggior parte destinati al traino del manifatturiero. E sono le medie e piccole imprese, quelle che durante la crisi hanno magari fatto ricorso al credito a breve, a soffrire di più.

Intendiamoci: non siamo all'anno zero. Nel pieno della crisi banche, imprese e Governo hanno reagito evitando inutili polemiche e imboccando la strada di accordi anche per rafforzare la patrimonializzazione delle aziende. Nel 2009 ci fu la «boccata d'ossigeno», come la definì il ministro Giulio Tremonti, con l'intesa sulla moratoria per la restituzione dei crediti alle aziende. È operativo il Fondo di investimento italiano promosso dal Governo ed è di un mese fa l'intesa con Confindustria per la moratoria dei debiti delle piccole e medie industrie. Non si contano le intese tra banche e industria sul territorio e gli accordi bilaterali come quello raggiunto lo scorso settembre tra la Piccola industria e Banca Intesa Sanpaolo con un plafond di 10 miliardi per la crescita. Si discute la possibilità di un ruolo della Cassa depositi e prestiti nel rafforzamento patrimoniale delle banche.

Tutto bene, ma non per questo possono essere ora sottaciuti i rischi conseguenti la possibilità che il credito finisca compresso in un collo di bottiglia. La lettura dell'indagine Ambrosetti su «mercato, banche e imprese verso Basilea 3» che pubblichiamo a pagina 3 suggerisce una discussione aperta e non di comodo. Ci sono numeri e simulazioni che fanno tremare i polsi. Ad esempio, nel caso le banche scegliessero, come unica strada, quella di ridurre gli impieghi per adeguarsi alle nuove regole, l'impatto che ne deriverebbe sarebbe una restrizione dello stock di credito a famiglie e imprese tra il 9% e il 24% rispetto ai livelli del 2009.
Certo è un'ipotesi estrema, ma rende bene l'idea del problema che abbiamo di fronte. Considerata, per l'appunto, la natura "bancocentrica" del sistema italiano dove la reciproca, storica dipendenza tra banche e imprese raggiunge il picco in Europa. Se Basilea 3 provoca la febbre nelle banche, queste, a loro volta, possono scatenare la polmonite nelle imprese già in affanno. E allora addio crescita.

guido.gentili@ilsole24ore.com

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