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Questo articolo è stato pubblicato il 15 aprile 2011 alle ore 08:54.
L'ultima modifica è del 15 aprile 2011 alle ore 08:55.

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La Cina continua ad acquistare. Dappertutto. Sottoscrive le emissioni di titoli pubblici dei Paesi periferici europei, detiene una quota importante del debito italiano, immagina persino di ricapitalizzare le Cajas spagnole, le casse di risparmio in difficoltà. Pechino, però, non è un investitore qualsiasi: è un Governo straniero, che si muove con una logica che non è certo quella dell'investitore privato. Quel denaro, insomma, svolge più la funzione del diplomatico che quella del mercante. Il Regno di mezzo lega a sé, non a caso, i Paesi più affaticati, con una logica che è tutta politica. Le sue ingenti risorse possono tanto garantire rapporti pacifici di convivenza, quanto essere usate come arma di pressione: non si può dimenticare che Washington, durante la crisi di Suez, lanciò una "guerra valutaria" contro la sterlina per costringere Londra a ritirarsi, e ci riuscì. Anche nella migliore delle ipotesi, inoltre, la missione diplomatica del denaro cinese danneggia le economie, drogandole: distorce i prezzi e altera la valutazione dei rischi. Avvenne la stessa cosa quando Pechino investiva in Fannie Mae e Freddie Mac, le società di mutui americane, diventando "complice" delle politiche sbagliate della Fed. Si sa poi come andò a finire.

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