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Questo articolo è stato pubblicato il 29 aprile 2011 alle ore 07:56.

Nulla di nuovo se per quasi due mesi il Governo Berlusconi annuncia che in Libia «gli aerei italiani non avrebbero mai sparato» (pur non potendo escludere tale eventualità date le caratteristiche degli aerei impiegati e del tipo di missione intrapresa); in effetti già nel dicembre 1990, l'allora ministro degli Esteri De Michelis dichiarava che, nell'impiego delle forze a far rispettare l'embargo contro l'Iraq, «i Tornado sono pacifici e sono stati usati in modo pacifico». Lo stesso vale per il caso del maggiore dell'aviazione Nicola Scolari, trasferito dopo essersi dilungato con i giornalisti sulle reali caratteristiche delle missioni dell'Aeronautica sui cieli libici; una decisione in linea con quanto veniva intimato ai piloti italiani impegnati nelle operazioni di "difesa avanzata" sulla Serbia nel 1999, e cioè di tenere la bocca chiusa per evitare che il coinvolgimento nazionale nelle operazioni si manifestasse nella sua evidenza.

Ancora: così come il coinvolgimento dei Tornado, con attacchi "mirati" sul suolo libico, non è definito dal Governo Berlusconi come un'azione di guerra, l'allora presidente del Consiglio D'Alema dichiarava nell'aprile 1999 che «l'operazione militare in atto non è una guerra contro la Serbia». A suggello di questa minimizzazione dell'impegno bellico, il ministro della Difesa Martino nell'aprile 2004 così definiva l'operazione Antica Babilonia in Iraq: «L'Italia non sta combattendo alcuna guerra. La nostra è una missione di pace. Chi parla di coinvolgimento dei nostri militari in una guerra stravolge la verità».

La crisi libica è l'ennesima dimostrazione di un preciso tipo di cultura strategica con la quale gli attori politici, di Governo e opposizione, di centro-destra e centro-sinistra, hanno affrontato missioni internazionali, sfide per la sicurezza ed eventi bellici. La nostra ricerca condotta sul dibattito parlamentare in merito agli interventi in Iraq (1990 e 2003), Somalia, Albania, Kosovo, Afghanistan e Libano, evidenzia un sostanziale consenso bipartisan sulle missioni all'estero. Proprio l'interpretazione che i decision-makers, di Governo e di opposizione, danno degli interventi - derubricazione dell'elemento bellico, enfatizzazione dell'obiettivo umanitario e pacificatore, ricerca di visibilità con il minimo rischio - ha condizionato operativamente l'intervento stesso, attraverso regole d'ingaggio e caveat restrittivi e mezzi militari inadeguati alla pericolosità dell'operazione.

Come è stato possibile sviluppare in un contesto politico nazionale così polarizzato e litigioso un sostanziale consenso bipartisan dietro alle decisioni d'inviare soldati all'estero, decisioni che hanno trasformato l'Italia post-bipolare in uno dei più importanti contributori internazionali di uomini e mezzi della comunità internazionale? Come mai tutti si sono trovati d'accordo nel sostenere lo sforzo militare all'estero? Quali i valori condivisi?

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