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Questo articolo è stato pubblicato il 29 aprile 2011 alle ore 07:56.

Le interviste e i dibattiti parlamentari fanno emergere la centralità dei valori della pace e del multilateralismo. Il frame della pace assurge al ruolo di riferimento principe con il quale le forze politiche hanno affrontato, e affrontano tuttora, i temi della sicurezza. Un riferimento valoriale prima sviluppatosi come reazione al fallimento del nazionalismo fascista, e poi sedimentatosi negli anni della guerra fredda attraverso la sinergia tra internazionalismo comunista e terzomondismo cattolico.
Alcuni esempi, tratti dall'analisi dei dibattiti parlamentari, confermano questo quadro generale. Il dibattito sulla missione Unifil del 2006 illustra bene la rilevanza dei frame della pace e del multilateralismo, in quanto questi riferimenti ottengono le percentuali più alte in buona parte dei soggetti politici considerati. Ad esempio, per Alleanza Nazionale, il concetto di pace è fondamentale (ricorre con una frequenza del 52%), a fronte di una totale assenza del riferimento valoriale all'interesse nazionale. Per Udc, Forza Italia e Ulivo la categoria del "multilateralismo" prevale mentre poco spazio hanno riferimenti quali terrorismo, rischio, minaccia, sicurezza.
La conseguenza dell'enfasi sulla dimensione civile della presenza militare, sul suo carattere umanitario e sulla pace, è che l'aspetto bellico è di fatto occultato. Nella decisione d'inviare soldati all'estero, ogni Governo di centro-destra o di centro-sinistra tende a rimuovere la dimensione militare. Nel caso della missione Allied Force (Kosovo 1999) il riferimento alla guerra nel dibattito, per quanto secondario rispetto al multilateralismo, aveva una sua rilevanza. Se osserviamo quali sono i riferimenti utilizzati dai rappresentanti del Governo D'Alema durante la discussione in Parlamento, la pace viene menzionata più spesso della guerra. Questo slittamento dell'enfasi governativa a favore della pace è più eclatante nel caso della missione Antica Babilonia (Iraq 2003).
Qui il frame della guerra, fortemente impiegato dai partiti di sinistra come Rifondazione comunista in termini polemici, è preminente nel dibattito generale, ma diventa marginale se ci limitiamo ad analizzare gli interventi dei membri dell'esecutivo Berlusconi. In quest'ultimo caso siamo di fronte a una vera rimozione della categoria guerra, peraltro in un contesto fortemente conflittuale.
La retorica dell'umanitarismo ha ridimensionato la dimensione militare delle operazioni e fatto emergere una pericolosa ambiguità fra interpretazione politica e realtà sul campo. Tanto più pericolosa quando questo processo di "occultamento del bellico" riguardava missioni in ambiti altamente conflittuali, dal Kosovo all'Iraq, dalla Somalia all'Afghanistan.
In questi contesti, il gap tra una cultura strategica dominata dai valori dell'umanitarismo e della pace e la reale condizione sul terreno ha messo a repentaglio la sicurezza dei contingenti e ha anche avuto conseguenze drammatiche. Contingenti depotenziati, mezzi, misure di protezione e sicurezza inadeguati, regole d'ingaggio e caveat rigidi, codici penali datati e inapplicabili, continue ambiguità hanno segnato la storia delle nostre missioni all'estero. Pur senza dimenticare gli incidenti mortali per inadeguatezza di mezzi e materiali, il caso di Nassiriya è certo il più drammatico.
Ma ha una sua logica, come emerge dalla memoria difensiva del colonnello Georg Di Pauli, accusato di aver sottovalutato il rischio di un attacco alla base italiana: la decisione di collocare il compound militare nel centro della città «rispondeva allo scopo umanitario della missione e alle direttive politiche che volevano uno stretto contatto con popolazioni e istituzioni locali».
La politica del Governo di questi due mesi verso il regime di Gheddafi conferma le conclusioni alle quali arriva la ricerca: anche in questo caso il titolo del libro - Just don't call it war, ovvero "non parliamo di guerra" - appare pertinente. È il mito delle missioni di pace a pervadere nella discussione pubblica sulla politica militare italiana. Compiti, obiettivi e modalità d'intervento sono quasi sempre ricondotti nell'ambito dell'intervento di polizia internazionale, dell'emergenza umanitaria e della pacificazione.
Finalità condivisibili in un'ottica da potenza civile, ma quando sparano i cannoni bisogna ammettere di essere in guerra, non nascondersi dietro il dito dell'umanitario. La maturità di un Paese che pretende, spesso urlando, di avere un posto al tavolo dei grandi si misura dalla chiarezza con cui affronta le crisi internazionali.
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