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Questo articolo è stato pubblicato il 05 maggio 2011 alle ore 09:17.

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Le mozioni sulla Libia votate ieri dalla Camera producono una serie di conseguenze. Con un'avvertenza, però: nessuna di tali conseguenze riguarda la Libia, il profilo della missione italiana, il prosieguo della campagna aerea. In tal senso i documenti parlamentari lasciano, come suol dirsi, il tempo che trovano. Sarebbe stato molto meglio evitare il voto e procedere come convenuto con gli alleati della Nato. Gli effetti delle mozioni riguardano invece la politica interna e gli infiniti giochi che coinvolgono maggioranza e opposizione. Può sembrare strano, ma anche e soprattutto l'annuncio fatto da Berlusconi a «Porta a Porta» rientra in tale quadro. Nel borsino dei possibili successori Giulio Tremonti, a lungo dimenticato, è balzato in vetta grazie alle parole del leader: «Se mi tiro indietro...».

In un attimo si è dissolta la designazione di Alfano, che aveva tenuto banco sui "media" per un paio di mesi. Intendiamoci: né il riferimento ad Alfano né adesso quello a Tremonti va preso per oro colato. Non si tratta di una svolta nel Pdl, tanto meno di una promessa definitiva. È un segnale, un bengala sparato nel cielo. Ma è un segnale con un preciso significato: Berlusconi si è rappacificato con la Lega e quindi con il ministro dell'Economia. Quanto durerà, non lo sappiamo: di sicuro almeno fino alle elezioni amministrative. Dopo si vedrà, a seconda del risultato.
Comunque sia, il presidente del Consiglio ha ben compreso che i distinguo sulla Libia (prima della mozione comune) erano solo un aspetto del problema. Nel malessere leghista c'era molto di più della ricerca di una visibilità elettorale. Quando Bossi lamentava di essere «trascurato», persino ferito nella sua dignità di storico alleato, poneva un problema serio. E parte di tale problema era il ruolo di Tremonti, messo in difficoltà, criticato e attaccato da ambienti berlusconiani, senza dubbio con il consenso, esplicito o implicito, del premier stesso.
Da ieri sera, dopo la cena ad Arcore con Bossi, è tutto alle spalle. Almeno per un po'. Il riassetto di potere è in corso e Berlusconi – notizia di qualche significato – accetta il principio di doversi un giorno ritirare e aprire la strada a una nuova classe dirigente del centrodestra. Non è poco.

Quanto alla Libia, tocca oggi a Frattini rappresentare a Hillary Clinton la linea italiana. «Compito non invidiabile», ha chiosato ieri Casini a Montecitorio. In realtà il ministro degli Esteri ha le mani libere, perché la mozione votata non cambia la posizione del governo. Ci sarebbe un problema solo se la Nato ci chiedesse l'impiego di un maggiore numero di aerei da bombardamento. O se si profilasse – ipotesi esclusa – un coinvolgimento di truppe di terra. Per il resto, l'Italia farà quello che si è impegnata a fare. La battuta di Bossi («la Nato dovrà tener conto del documento approvato») è una frase buona per l'elettorato leghista. Allo stesso modo la «Padania» può titolare sul «limite temporale imposto all'azione bellica». O sul fatto che «prevale la ragionevolezza, basta coi bimbi uccisi dalle bombe» (articolo del presidente della commissione Esteri, Stefani).
È un'ottica domestica. E qui Bossi ha ragione quando dice che «la Lega ha vinto». Nel senso che si è raccordata con l'opinione pubblica neutralista, contraria all'operazione militare. Un mondo frastagliato che il Pd di Bersani non intercetta con la sua linea dignitosamente filo-Onu e filo-Nato. Al punto che il centrosinistra si è spaccato.

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