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Questo articolo è stato pubblicato il 06 maggio 2011 alle ore 06:41.

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La produttività come specchio dell'anima economica della nazione. O, almeno, come indicatore principale del suo sistema produttivo. Nessuno mette in dubbio che nelle statistiche internazionali la produttività italiana sia inferiore a quella degli altri paesi. Intorno ad essa, si esercitano però le diverse opzioni politico-culturali che, a partire dal 2000, hanno fornito argomenti ai sostenitori, per lo più di scuola anglosassone, del declino economico italiano o ai fautori di una interpretazione più articolata e metamorfica del nostro tessuto produttivo, assorbita in misura rilevante dalla visione tremontiana delle cose.
I numeri elaborati dalla Banca d'Italia, che in questa stagione ha conservato nella sua attività di ricerca un profilo e una credibilità istituzionali, evidenziano come nel 2008, anno in cui la crisi finanziaria ha iniziato a propagarsi al tessuto economico internazionale, la dinamica della produttività oraria, in termini di contributo al valore aggiunto, è stata in Italia negativa per 1,2 punti, a fronte del +0,7 dell'area euro, dell'1,1 della Germania e dello 0,5 della Francia. Nell'ultimo trimestre del 2010, punto di svolta nell'uscita dalla recessione, la produttività dell'area euro si è attestata a +2,1% rispetto allo stesso periodo del 2009. In particolare quella italiana è a +1,8%: qualcosa più dei francesi (1,1%), molto distante dal +4,5% dei tedeschi.
Limitiamo il perimetro di osservazione al manifatturiero, che nella impostazione neo-produttivista e nella mistica dei territori ha egemonizzato il dibattito culturale e politico. Considerando le statistiche di Via Nazionale per la sola industria (al netto delle costruzioni) la nostra produttività nell'ultimo trimestre dell'anno scorso è aumentata di 4,3 punti, a fronte del 2,8% francese, del 6,1% dell'area euro e dell'11,3% tedesco. Dunque, rimbalziamo meno della media europea e molto meno della Germania, il nuovo totem dopo gli anni anglicizzanti dell'apertura dei mercati e delle privatizzazioni.
Peraltro, se collochiamo nel secondo trimestre del 2009 il picco della crisi, scopriamo che allora la produttività del tessuto industriale dell'area euro aveva subito una flessione del 16,4%, quella francese del 11,9% e quella tedesca del 20,3 per cento. La produttività italiana, invece, era a -19,5 punti. Dunque, almeno utilizzando questo indicatore, non è che il nostro sistema produttivo abbia sofferto meno di altri gli spasmi della crisi.
Al di là del parossismo generato dalla recessione, anche sul medio periodo le cose sono complicate: per l'ortodossia statistico-analitica dell'Oecd, fissato a 100 l'indice base della produttività generale del 1993, diciassette anni dopo l'Italia è addirittura sotto il punto di partenza, mentre gli altri paesi (Stati Uniti, Inghilterra, Giappone, Germania e Francia) hanno registrato crescite fra i 13 e i 20 punti.
Astraendosi dalle condizioni di contesto, vale la pena concentrarsi sulla fisiologia interna delle imprese. Nell'interpretazione classica, fra le ragioni della bassa produttività italiana vi sarebbe la dimensione media di impresa che, inferiore a quella europea, consentirebbe di avere minori risorse per fare innovazione. Ora, al di là della difficoltà di decrittare il capitalismo italiano più pulviscolare evidenziata dagli assertori delle tesi antidecliniste, la questione dimensionale è innegabile: secondo le Structural Business Statistics di Eurostat, l'impresa manifatturiera ha in Italia in media 9 addetti, in Germania 36 e in Francia 14. Stando a un recente paper di Pietro Modiano (banchiere, già direttore dell'ufficio studi del Credito Italiano, oggi presidente di Nomisma) e di Giuliano Conti (allievo di Federico Caffè ed economista della scuola eterodossa fondata ad Ancona da Giorgio Fuà), esiste un problema di sfilacciamento della forza propulsiva della produttività nelle microimprese. Nelle aziende con meno di nove occupati, il valore aggiunto per addetto è inferiore ai concorrenti europei: circa 27mila euro (dati precrisi), contro i 33mila euro tedeschi e i 40,5 mila euro francesi. Il problema è che, rispetto al 2000, questo valore aggiunto per addetto è cresciuto in Italia del 10%, in Germania del 15% e in Francia del 21 per cento. Anche se, come spesso evidenziato dagli assertori del paradigma metamorfico e anti-declinista, la galassia degli artigiani, delle partite Iva e dei terzisti ha caratteristiche di opacità (evasione fiscale, bilanci non sempre attendibili, confusione fra patrimonio familiare e aziendale) che rendono difficili le valutazioni statistiche.
Invece, nelle aziende fra i 10 e i 249 occupati ogni addetto genera 51mila euro di valore aggiunto, in linea con la Germania e la Francia. Un ordito robusto che costituisce uno dei tasselli fattuali delle posizioni anti-decliniste della Fondazione Edison, che ha incrociato la teoria distrettuale becattiniana con le analisi sull'export, e dell'ufficio studi di Mediobanca, che ha fissato il canone del Quarto Capitalismo delle medie imprese internazionalizzate. La criticità riguarda le imprese con oltre 250 occupati: 71,3mila euro di valore aggiunto generato da ogni addetto in Italia, 80,4mila in Germania e 83mila in tutta l'area euro.
Se una questione dimensionale esiste, non vanno trascurati altri fattori che toccano la radice più intima dell'efficienza e della produttività di una impresa, come dimostra la ricerca di Matteo Bugamelli, Luigi Cannari, Francesca Lotti e Silvia Magri del servizio studi della Banca d'Italia. L'analisi, dal titolo Radici e possibili rimedi del gap innovativo del sistema produttivo, ha un'ottica comparata. Fra gli ostacoli all'attività innovativa, evidenziati da una elaborazione compiuta su dati Efige, una impresa italiana su due indica il rischio economico, percepito come eccessivo: lo stesso capita soltanto a una francese su dieci e a una tedesca su quattro. C'è poi la carenza di domanda per prodotti innovativi evidenziata dal 17% delle aziende italiane, contro il 10% delle francesi e l'11,3% delle tedesche. Ammette una carenza di informazioni sulla tecnologia il 14% degli italiani (il 4,6% dei tedeschi e il 2,7% dei francesi).

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