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Questo articolo è stato pubblicato il 12 maggio 2011 alle ore 08:30.
L'ultima modifica è del 12 maggio 2011 alle ore 08:57.

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Giunto alla settima edizione, il rapporto annuale di Federculture (la Federazione che associa operatori pubblici e privati nell'ambito di cultura, turismo, sport e tempo libero) rappresenta «uno strumento conoscitivo e di lavoro essenziale per tutti coloro che lavorano nel settore della cultura», come riconosce nella prefazione il presidente emerito della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi.

L'edizione relativa al 2010 del rapporto (sostenuto da Ubi Banca, Fondazione del Monte ed Engineering, e pubblicato da Etas, col contributo di Enel e Fondazione Cariplo) sconta naturalmente le polemiche violentissime degli ultimi mesi, culminate nelle proteste per i tagli al Fus e sfociate nelle dimissioni del ministro Bondi. Ma, sopite le proteste più fragorose grazie al reintegro del Fus, e recuperata la piena funzionalità del ministero con l'arrivo di Giancarlo Galan, i motivi di preoccupazione sul settore e l'attualità delle analisi del rapporto rimangono invariati.

Quest'anno, al centro del rapporto c'è il tema fondamentale del valore della cultura come risorsa collettiva. Il tema è delicato perché, troppo spesso, questo valore è stato (e continua a essere) associato esclusivamente all'aspetto economico: la cultura "vale" perché "rende", e dunque la si finanzi senza troppe storie.

È l'argomento corrente, fonte di molti equivoci e deformazioni; e facilmente smontabile con l'obiezione che molte altre attività che pure "rendono" e assicurano, per dirla con gli economisti, esternalità positive non per questo sono finanziate coi soldi pubblici. Il tema della "valorizzazione", perciò, va maneggiato con cura: non per escludere che al settore servano robuste dosi di managerialità; ma per non consolidare l'illusione che bastino i manager per risollevarlo.

Abituiamoci dunque all'idea di prendere la cultura sul serio, e di valutarla per ciò che è, e non solo per ciò che può rendere. Su questo aspetto, in questa edizione del rapporto le testimonianze vanno nella stessa direzione: il presidente di Federculture, Roberto Grossi, denuncia «il deficit d'identità, di autostima verso il valore dell'arte e della nostra capacità d'innovare»; Davide Rampello, presidente della Triennale di Milano e vicepresidente della Federazione, ricorda che «una società colta è una collettività coesa, consapevole, fattiva»; il direttore dei Musei Vaticani, Antonio Paolucci, pur ironizzando che «il veloce viraggio da una concezione patriottica e identitaria del patrimonio a una economicistica e consumistica ha assunto caratteri ora pittoreschi ora ingenuamente provinciali», riconosce che non abbiamo fatto male a occuparci «della fruttuosità economica dei beni culturali», a immaginarceli «come produttori di reddito, moltiplicatori di occupazione, motori dello sviluppo». Paolucci non nutre dubbi «che i venerabili monumenti e paesaggi storici, le colonne e gli archi, la sculture e i dipinti, le biblioteche e gli archivi, se bene custoditi e amministrati, se efficacemente valorizzati, possono produrre profitto e occasioni di lavoro»; ma rivendica che «il profitto più grande, quello davvero lungo e fruttuoso nei tempi lunghi, offertoci dall'universo dei beni culturali è quella cosa immateriale e preziosa che gli antichi chiamavano "incivilimento"».

Pierluigi Sacco è a sua volta particolarmente efficace nello smontare un altro dei (perniciosi) luoghi comuni che affliggono il dibattito (asfittico) sulle politiche culturali, ossia la tendenza ad «attribuire alla cultura una funzione prettamente "ricreativa"». È uno stereotipo al quale ha dato nerbo l'operato di troppi assessori (questo lo dico io, non Sacco), fonte di una perversa e fatale conseguenza: che la «legittimazione sociale della cultura sarà di conseguenza soggetta alle stesse condizioni con cui si valuta ogni altra forma d'intrattenimento, ovvero la capacità di aggregare consenso e la capacità di generare flussi economici rilevanti» (questo lo dice Sacco). L'analisi dello studioso smonta definitivamente l'equazione che identifica cultura e "grande evento", sottolineando che in tanto gli interventi di politica culturale hanno successo in quanto creano domanda, e non perché vi si adagiano: «La cultura - aggiunge - acquista un vero significato sociale ed economico proprio nella misura in cui permette a chi si relaziona ad essa di allargare i suoi orizzonti di senso, ha significato nella misura in cui destabilizza le aspettative del suo pubblico potenziale invece di confermarle».

Dal rapporto (significativamente intitolato «La cultura serve al presente - Creatività e conoscenza per il benessere sociale e il futuro del Paese») emerge insomma una visione del settore come elemento complessivo, innanzi tutto, d'integrazione. Non credo si tratti di un ripensamento di Federculture che negli anni si era piuttosto distinta sul fronte della diffusione delle nuove pratiche gestionali, spesso oggi minacciate da improvvidi interventi centralisti, denunciati anche in questo rapporto: il punto è che nessuna scelta gestionale potrà supplire a un equivoco di fondo sulle funzioni che intendiamo attribuire agli interventi pubblici di politica culturale.

Perciò Grossi richiama insistentemente la politica a chiarirsi le idee e, innanzi tutto, ad assumere consapevolezza dell'importanza della posta in gioco. Non si tratta di organizzare nuovi convegni: il presidente della Fondazione Maxxi di Roma, Pio Baldi, mette in guardia, per esempio, su un rischio molto concreto, quello di perdere una grande occasione quando si trascura la dimensione estetica, e dunque culturale, nella realizzazione delle grandi opere infrastrutturali; un rischio, aggiunge, che stiamo correndo col ponte di Messina che pure potrebbe diventare, così com'è avvenuto a Øresund, «il landmark più importante dell'Italia del futuro». E forse è anche questa mancanza a spiegare come l'Italia scivoli dal 28° al 33° posto nella classifica sulla competitività turistica (che arricchisce il corredo di dati statistici in appendice al rapporto).

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