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Questo articolo è stato pubblicato il 14 maggio 2011 alle ore 09:39.
L'ultima modifica è del 14 maggio 2011 alle ore 09:59.

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Non passa giorno senza pronunciamenti di politici europei o esponenti della Banca centrale europea sulla Grecia. E i toni sono spesso apocalittici. Una ristrutturazione del debito di Atene sarebbe, per citare solo gli interventi degli ultimi giorni, «una catastrofe», «un suicidio politico», «peggio di Lehman» e «da evitare in ogni modo».

In assenza di analisi aggiornate che dimostrino la sostenibilità del debito, pare improbabile che tali dichiarazioni riusciranno a ribaltare l'aspettativa che una ristrutturazione sia inevitabile, nonostante i suoi innegabili costi. Tanto più che il messaggio non è univoco: nel muro di netta chiusura alla ristrutturazione vi è un'apertura tedesca.
L'Europa ha ormai da tempo superato il peccato originale nella gestione di questa crisi, e cioè il ritardo nel rispondere tra fine 2009 e maggio 2010. Un ritardo costoso, nato da un orgoglioso rifiuto di rivolgersi all'Fmi e dalla malposta nozione che gli aiuti a un Paese in difficoltà debbano essere un'ultima ratio punitiva. Sono poi arrivati passi che rappresentano invece delle vere novità storiche per l'Europa: i nuovi meccanismi di prestito, i programmi d'aggiustamento, la flessibilità degli interventi Bce, un quadro rafforzato per la sorveglianza macroeconomica e una prospettiva per il futuro, con la creazione di un nuovo istituto anti-crisi, l'Esm.

Ma questi pregevoli sforzi sono stati vanificati dal persistere diabolico in un secondo peccato originale: quello di non avere integrato una comunicazione disciplinata nell'arsenale di gestione della crisi. L'esperienza internazionale insegna l'importanza cruciale di quest'arma; un'importanza oggi ampliata dal ciclo frenetico di notizie, con ripercussioni immediate sui mercati.
Contro questa necessità si assiste invece a una cacofonia di messaggi, con conferenze stampa post-vertici Ue dirette in primo luogo a rassicurare il pubblico di casa propria di avere difeso gli interessi nazionali. Il susseguirsi di tali dichiarazioni, spesso anche contraddittorie, genera continua incertezza e nervosismo. Le crisi si alimentano di incertezza, e quanto più dura questo vortice, tanto più aumenta il rischio di contagio.

Eppure in altri rami della politica economica l'importanza della comunicazione è stata ben compresa. Nella politica monetaria, in particolare, le banche centrali soppesano attentamente ogni parola per ben plasmare le aspettative. Alle conferenze stampa della Bce, i mercati stanno all'erta a ogni riferimento o meno alla "vigilanza" anti-inflazionistica e alla presenza di un aggettivo che la qualifichi. In modo analogo, nella politica dei cambi, gli Stati Uniti aderiscono con disciplina ferrea all'ormai classico dictum secondo cui "un dollaro forte è bene per il Paese", ripetuto da Ben Bernanke appena il 27 aprile scorso.

Oggi ci troviamo a un momento cruciale della crisi del debito euro. I lavori in corso ad Atene ci daranno gli elementi per sapere, con cognizione di causa oggi incompleta, quanto realisticamente potrà fare di più la Grecia e l'ammontare del financing gap conseguente. Non si dovrà attendere molto, la troika Fmi-Ue-Bce sta lavorando di buona lena. Ma intanto le aspettative, con i mercati in fibrillazione, vanno gestite con cura. Prima di avere questi elementi, sarebbe bene ispirarsi all'esempio del cancelliere tedesco Angela Merkel, la quale ha dichiarato: «Ho bisogno di analizzare prima gli esiti della Bce, della Commissione e dell'Fmi. Non posso fare commenti prima di allora». Questa posizione d'attesa, per quanto non faccia "notizia", è la più responsabile in questa fase. Dovrebbe essere fatta propria da tutti gli Stati membri - a partire dalla riunione Ecofin del 16-17 maggio. Ancor meglio sarebbe se tutte le dichiarazioni sulla gestione della crisi fossero accentrate in un unico portavoce europeo. Che questa proposta elementare appaia del tutto ingenua indica quanto cammino resti da fare.

Naturalmente una comunicazione disciplinata non basta, da sola, a risolvere la crisi. È essenziale che da Atene emerga un'analisi della sostenibilità del debito che sia professionalmente robusta, e che non metta a prova la credulità dei mercati, incluso sui possibili proventi di privatizzazioni. Se quest'analisi mostrasse, come ritenuto da molti e riflesso nei prezzi di mercato, che il debito non è in effetti sostenibile, anche dopo ulteriori prestiti ufficiali, che si applichi da ora quanto previsto dai termini stabiliti per il nuovo Esm, nel 2013. La term-sheet in questione stabilisce che, in tale situazione, «lo Stato membro beneficiario sarà tenuto a impegnarsi in negoziati attivi in buona fede con i creditori per garantire il loro coinvolgimento diretto nel ripristinare la sostenibilità del debito». In parole povere, chiedere (o meglio ancora offrire) una ristrutturazione.

Se invece, anche dopo tali risultati d'insostenibilità del debito, i leader della zona euro continuassero a opporsi a una ristrutturazione, dovrebbero riconoscerne il corollario logico: «Continueremo noi a finanziare la Grecia, anche se vorrà dire che diventeremo gli unici creditori. E se la spada dovesse un giorno cadere, cadrà interamente sul nostro collo». Ma tale risultato non sarebbe, questo sì, un "suicidio politico", e non solo del debitore, ma collettivo?

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