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Questo articolo è stato pubblicato il 15 maggio 2011 alle ore 08:14.

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«Bene, fantastico. Adesso però mi dite dove sta la fregatura». Alessia Zanelli, 35 anni, amministratore delegato di Comecer, leader mondiale nella medicina nucleare, Pmi ad alto potenziale di crescita e innovazione con sede nel Ravennate, in realtà ha usato una terminologia più colorita, da romagnola simpatica e viscerale quale è. Lo ha fatto per rendere al meglio quel misto di incredulità ed entusiasmo che l'ha presa quando il Fondo italiano d'investimento le ha prospettato i termini dell'accordo per l'ingresso nel capitale della sua azienda, fondata dal padre Carlo, oggi presidente onorario, negli anni 70.

Un fatturato di 32 milioni di euro, per l'80% generato dall'export, 180 dipendenti e una nicchia di mercato dove i player non sono molti. Un target ideale per il private equity. E infatti, prima ancora che il Fondo voluto dal ministero dell'Economia diventasse una realtà operativa, era già in discussione con un partner potenziale: «La mentalità era troppo finanziaria, lontana dalla nostra logica, che resta ancorata a una sana e solida base industriale. Volevano ottimizzare, poi ancora ottimizzare per rivendere a breve. A noi questo approccio non piaceva».

Comecer aveva comunque già intrapreso un percorso di rinnovamento attraverso l'adozione di una struttura di comando più manageriale, con un direttore finanziario e uno operativo, sull'onda di una forte crescita: «In questi ultimi anni ci siamo staccati abbastanza rapidamente dal modello di una classica azienda padronale dove io, come addetta alle vendite, passavo più tempo in aereo che al quartier generale», racconta Alessia Zanelli.

Il Fondo italiano è entrato nel marzo scorso, contestualmente a un aumento di capitale: 7,5 milioni di euro, pari a una quota in Comecer di circa il 30 per cento. Una risorsa preziosa per chi, come l'azienda di Castel Bolognese, due filiali commerciali e di assistenza post vendita all'estero (Mumbai e Miami), vuole crescere anche attraverso acquisizioni e ha individuato un paio di target potenziali per consolidare la sua leadership nei sistemi di gestione, elaborazione, dosaggio e disposizione dei radio-farmaci.

Una bella storia, too good to be true secondo lo stupore iniziale di Alessia Zanelli, che mostra una "terza via" tra la riluttanza fisiologica del nostro familismo imprenditoriale e l'approccio forse troppo anglosassone del private equity più classico. Il Fondo italiano d'investimento - partecipato dalle grandi banche, dal ministero dell'Economia, dalla Cassa depositi e prestiti e da Confindustria - è anche uno strumento di dialogo e mediazione tra due mondi che continuano a guardarsi con una certa diffidenza. Di investimenti diretti come quello di Comecer, finora ne ha compiuti quattro, mentre a fine aprile ha siglato accordi per investire 65 milioni di euro in tre fondi attivi sul segmento delle Pmi italiane. È un buon inizio, in linea - sostengono gli esperti di settore - con i tempi e i ritmi del mercato del private equity.

La struttura è diventata operativa nel novembre scorso, data in cui il personale contava l'amministratore delegato Gabriele Cappellini e una segretaria. Oggi sono una trentina, numero "legale" necessario per venire incontro a una domanda crescente ed estremamente diversificata. E che lo stesso Cappellini qualche mese fa, a un convegno sulla finanza organizzato da Confindustria Verona, spiegando agli imprenditori che cosa non fa il Fondo, aveva sintetizzato così: «Ho ricevuto richieste d'intervento legate all'alluvione, chiaramente non esaudibili. Non facciamo start-up, non entriamo in aziende in crisi, non facciamo attività finanziarie e immobiliari».

Resta, profondo, il gap culturale tra quello che la finanza, anche nel caso del Fondo italiano, a forte componente pubblica e istituzionale, può offrire, e quello che le aziende si aspettano di trovare. La stessa distanza separa le Pmi dalla Borsa, perché la loro struttura finanziaria, come osserva Luca Peyrano, è essenzialmente bancocentrica, con un indebitamento superiore alle media europea: «Ma gli investimenti più rischiosi, quelli legati a percorsi di crescita, si fanno con l'equity e non col debito», dice il responsabile primary market di Borsa Italiana.

Risultato: nei nostri listini le piccole e medie aziende sono meno di 300 (nei due segmenti non regolamentati destinati alle smallcap, l'Aim e il Mac, sono solo 19). Qualcuno cita il problema dei costi legati alla quotazione, come deterrente al grande passo verso il mercato, ma Peyrano ritiene che tali costi siano gli stessi per le più importanti piazze finanziarie europee. Solo che a Francoforte ci sono 931 Pmi e a Parigi 765, per non parlare delle circa 3mila a Londra. Borsa italiana ha istituito in autunno un advisory board, cui partecipano rappresentanti del mondo imprenditoriale e della finanza, per elaborare una nuova strategia d'offerta con l'obiettivo di raggiungere nel medio termine una massa critica di 450-500 Pmi quotate.

«Un aspetto che ancora limita la diffusione del Private Equity in Italia è la forte sovrapposizione, nelle aziende familiari italiane, tra la sfera privata e quella aziendale», spiega Jonathan Donadonibus, docente alla Liuc di Castellanza e coordinatore del Private Equity Monitor. La personalizzazione è fortissima e questo spesso crea inevitabili conflitti con gli uomimi dei fondi, solitamente manager "duri e puri". Ma c'è dell'altro, che attiene sostanzialmente alla natura stessa dei fondi. In dieci anni di monitoraggio, continua Donadonibus, «abbiamo assistito all'affermazione di un business model che è anglosassone e che non sempre ben si adatta alla realtà produttiva italiana». Il suggerimento, allora, è di creare fondi di private equity con una taglia dimensionale, e quindi di investimento per azienda, inferiore rispetto alla media attuale: «Evidentemente fondi da 350-500 milioni di euro sono troppo grandi per intercettare molte Pmi. Ridurre il taglio e mantenere un elevato numero di investimenti per spalmare il rischio potrebbe essere d'aiuto».

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