Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 21 maggio 2011 alle ore 10:40.
L'ultima modifica è del 21 maggio 2011 alle ore 12:07.

My24

Il ritorno sulla scena di Silvio Berlusconi era inevitabile. In primo luogo per l'ovvia ragione che egli non può dare l'impressione di essersi arreso e di considerare impossibile la rimonta a Milano. Che ci creda o no, è suo interesse parlare e comportarsi come se la vittoria fosse a portata di mano. In secondo luogo, il premier deve cancellare l'impressione della campagna egocentrica e sbagliata condotta fino al 13 maggio: il famoso referendum su se stesso, gli attacchi scomposti alla magistratura («un cancro»), quell'incapacità di mandare un messaggio positivo ai milanesi.

Il silenzio era impossibile, la presenza massiccia in città sarebbe inopportuna. Ecco perché Berlusconi ha scelto la consueta via degli appelli televisivi. Ciò lo espone a polemiche, alcune nemmeno ingiustificate, compreso un ricorso all'Agcom. Ma il presidente del Consiglio non può rinunciare alla battaglia, costi quel che costi. Nemmeno può delegarla ad altri. Lo stesso Bossi, che pure di campagne elettorali se ne intende, ha subito fatto un passo falso dando del «matto» a Pisapia. Messi sul piatto i «pro e i contro», Berlusconi si è di nuovo esposto in prima persona. E lo ha fatto abbandonando i vecchi argomenti: niente più scorribande contro le procure, ma il tentativo di parlare di Milano ai milanesi.

È legittimo - benché tardivo - prospettare un regime fiscale alleggerito. Poi decideranno i cittadini se la promessa è credibile o no. Così come è legittimo che il premier, capo riconosciuto della coalizione a cui appartiene il sindaco uscente, usi lo slogan «non consegniamo Milano agli estremisti». Stabiliranno poi i milanesi se esiste questo rischio e se Pisapia lo alimenta. Al primo turno hanno dimostrato di non crederci troppo, ma è diritto del centrodestra provare con tutti i mezzi a recuperare gli astenuti o i distratti.

In ogni caso l'offensiva berlusconiana è la prova definitiva, se ce ne fosse bisogno, di quanto valga il voto di Milano. È vero, nelle interviste-fiume di ieri sera si parla anche di Napoli e dello scontro Lettieri-De Magistris. Tuttavia è lampante che tutta l'attenzione è al nord. Un'eventuale sconfitta sul golfo sarebbe amara, ma in termini politici nazionali ancora gestibile. Una disfatta nel capoluogo lombardo non resterebbe senza pesanti conseguenze. In fondo, Berlusconi ha atteso, prima di ributtarsi nella mischia, che Bossi gli permettesse di affermare: «il governo è solido». Ma sanno entrambi che un esecutivo solido, al di là del 29 maggio, richiede che Milano resti alla Moratti. Senza la rimonta, si entra in una zona grigia e inesplorata in cui né Berlusconi né il suo maggiore alleato saprebbero bene come muoversi e in cui prenderebbero il sopravvento malumori di ogni tipo.

Si è letto molto in questi giorni sul ruolo di Tremonti e sugli scenari che potrebbero coinvolgerlo anche nelle vesti di salvatore dell'alleanza Pdl-Lega. Si sono sentite le più varie ipotesi intorno al nome del ministro dell'Economia: vice-premier, presidente di un governo «tecnico», candidato a Palazzo Chigi scelto fin d'ora in vista delle elezioni nel 2013. La verità è che tutto è scritto sulla sabbia. Di certo c'è che Berlusconi non intende essere «commissariato». Per il resto, Tremonti non è stato né rafforzato né indebolito dal voto amministrativo. A lui si chiede di attuare una politica fiscale meno rigida, in grado di attirare in prospettiva maggiori consensi. Ma è noto che per la riforma fiscale le risorse sono esigue, quasi inesistenti. Comunque sia, la sera del 30 si faranno i conti. L'ultima fase della legislatura comincerà allora: contando i voti di Milano (e Napoli).

Commenta la notizia

Shopping24

Dai nostri archivi