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Questo articolo è stato pubblicato il 24 maggio 2011 alle ore 07:39.
L'ultima modifica è del 24 maggio 2011 alle ore 06:39.

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Farmacogenetica è la parola aurea. E il manager marchigiano Fabio Biondi il suo profeta. A Jesi, una delle capitali della terza Italia, tra colline fitte di vigne di Verdicchio e una selva di fabbriche di cucine ed elettrodomestici che chiudono i battenti una dopo l'altra, questo cinquantanovenne nato il 29 febbraio come il suo conterraneo Gioachino Rossini, è una specie di marziano.

La storia inizia alla Sclavo del gruppo Enichem. Biondi sorseggia vino bianco e racconta: «Diciassette anni in un'azienda farmaceutica non si dimenticano. L'inizio della fine è il passaggio in Enimont. Poi compra Marcucci che ne fa uno spezzatino. Ho una laurea in farmacia, e quando l'impero farmaceutico dell'Eni va in rovina fondo la Diatech farmacogenetics: mi tuffo nella diagnostica dei tumori, settore dominato da giganti come Siemens e Roche».

Corre il 1994. La diagnosi molecolare dei tumori ha fatto un salto in avanti da pochissimi anni. Lo scienziato americano Kary Mullis, scopritore della Pcr (metodica che consente l'amplificazione in vitro di frammenti del Dna), si è appena aggiudicato il Nobel per la chimica. È una scoperta rivoluzionaria. Da quel momento in avanti, buona parte della diagnostica infettivologica e tumorale passa dall'analisi del Dna. La Diatech nasce sulla scoperta di Mullis. La scommessa è inventare e produrre su larghissima scala test che rivelino se un determinato farmaco o chemioterapico è compatibile con il genoma di un singolo paziente. È la versione sofisticata di un antibiogramma, cioè di quel test che rivela se un certo antibiotico è in grado di sconfiggere il batterio che si è infiltrato nel corpo del paziente. Biondi insedia la sua microazienda nel business innovation center di Senigallia.

Il primo test che va sul mercato rileva la presenza del papilloma virus che se trascurato può originare il cancro al collo dell'utero. Un business piccolo piccolo che vale un fatturato annuo di 300 milioni di vecchie lire. Il salto scientifico è rilevante. Fino a quel punto la presenza di un virus nel sangue si rilevava sono con gli anticorpi. I kit di Diatech consentono invece di snidare la presenza del virus rilevando direttamente il suo Dna. Una metodica che azzera il periodo-finestra, quel lasso di tempo che intercorre tra la contrazione del virus e la proliferazione degli anticorpi, gli unici rilevabili fino a quel momento. Il vantaggio è evidente: se si fotografa direttamente il genoma del virus non appena è stato contratto, le terapie che ne discenderanno saranno mirate e risolutive.

A Biondi non basta. Nel 2006, durante una rassegna fieristica, scopre che un'aziendina svedese ha prodotto una macchina, il pyrosequencing, che sfrutta la bioluminescenza delle lucciole per sequenziare il Dna. Gli svedesi la usano solo per la ricerca. Biondi intuisce che può trasformarsi in uno strumento diagnostico formidabile. Dice l'imprenditore marchigiano: «Quella macchina sarebbe stata in grado di individuare le mutazioni del Dna. La compro e propongo agli svedesi di diventare anche il distributore unico per l'Italia. Ne vendo 50 in tre anni, ma allo stesso tempo metto i miei ricercatori al lavoro per trasformarla in una sorta di "sforna kit" capaci di predire l'efficacia dei chemioterapici nella cura dei tumori».

Funziona. Gli affari vanno così bene che Diatech può traslocare in un laboratorio di 400 metri quadrati. Le multinazionali biomolecolari del settore decidono di battere la stessa strada. La Roche spende 49 miliardi di dollari (più o meno quanto i ricavi della Chrysler dopo la cura Marchionne) per acquisire il 49% di un'altra azienda americana, la Genentech che produce anticorpi per la terapia del cancro.

Oggi la Diatech produce 2.500 kit all'anno che coprono tutto lo spettro della terapia del tumore. Gli acquirenti sono 45 ospedali italiani che pagano ogni singolo pezzo 2.500 euro. I ricavi viaggiano sui 4,5 milioni l'anno, ma una parte cospicua finanzia la formazione della dozzina di scienziati su 21 dipendenti in totale che Biondi recluta nelle università italiane, Camerino in primis, ma poi spedisce nei più blasonati centri di ricerca in giro per il mondo al costo di 50mila euro per un semestre: da Cambridge (Regno Unito) a Uppsala (Svezia).

Le scoperte dell'azienda marchigiana hanno irritato non poco le grandi industrie farmaceutiche che producono chemioterapici. Fino alla scoperta di questi kit non esisteva alcuna controprova dell'efficacia o meno di un determinato farmaco. È l'applicazione della medicina personalizzata: identificare il farmaco e la dose più idonea per un paziente non solo in base alla malattia ma al suo profilo genetico, riducendo così il rischio di effetti collaterali, inefficacia terapeutica e dosaggi inadeguati. Di pari passo con lo sviluppo di Diatech, le Marche si sono specializzate sempre di più nel settore della cura e gestione del paziente oncologico, un nuovo distretto con una dozzina di aziende riunite in Marchebiotech, sede a Jesi.

Tra poco la Diatech abbandonerà le tre stanzette con magazzino annesso e si trasferirà in un palazzo tutto vetro e cemento di 6mila metri quadrati a qualche chilometro di distanza dalla vecchia sede. Ma non sono gli spazi a fare la differenza. Dice Biondi: «Le biotecnologie si fondono sulle capacità individuali più che sui mezzi. Noi potremmo lavorare benissimo in un garage, come Steve Jobs agli albori o i ragazzi di Google. Oltre che biologi mi piacerebbe assumere anche matematici e fisici: l'interdisciplinarietà è la chiave di volta del futuro. L'algoritmo del matematico applicato alla conoscenza delle scienze umane può fare miracoli».

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